Autore: Chester Himes
Testimone involontario di un duplice, brutale omicidio a sangue freddo, il giovane studente nero Jimmy Johnson – che lavora come inserviente notturno in una tavola calda di Harlem – diventa a sua volta bersaglio dell’implacabile assassino, un agente di polizia corrotto e ferocemente razzista che vive in uno stato di perenne ubriachezza. Spremendo fino all’osso uno dei più antichi luoghi comuni del thriller, l’innocente in fuga braccato dalle forze del male, Chester Himes confeziona in questo romanzo una delle sue messinscene più violente, i cui frequenti elementi di tragicommedia non fanno che rinforzarne la visione apocalittica e il nichilismo portato alle estreme conseguenze, soprattutto per quanto riguarda il perverso rapporto tra bianchi e neri. Pur nell’angoscia della caccia, Himes riesce a dipingere un minuzioso quadro della vita quotidiana nella Harlem degli anni Cinquanta: cabaret equivoci, bische clandestine, botteghe di barbiere e stazioni di polizia. Mentre una Manhattan mai così ostile e impenetrabile respinge chiunque bussi alle sue porte in cerca d’aiuto.
"Un thriller mozzafiato, realistico fino allo choc."
- La Repubblica -
"Nessun altro romanziere ha saputo cogliere come Chester Himes
il sordo pulsare del sangue, il respiro ansimante e disperato
della città americana e dei suoi abitanti."
- James Sallis -
"Chester Himes ha fatto per Harlem
quello che Raymond Chandler ha fatto per Los Angeles."
- Newsweek -
Autore
Chester Himes (1909 – 1984) è nato a Jefferson City, Missouri. Cresciuto in un clima carico di forti tensioni, venne espulso dalla Ohio State University a causa del suo carattere turbolento. A diciannove anni fu arrestato per rapina e condannato a vent’anni di carcere. Proprio in carcere ha maturato il suo talento letterario, cominciando a scrivere grazie all’aiuto di Richard Wright. Scontata la pena si trasferì in Europa, prima in Spagna poi a Parigi, dove iniziò a pubbblicare per la Série noire di Gallimard. Himes fu scrittore noir di culto tra gli anni ’50 e ’70. La questione razziale è spesso al centro delle sue originalissime detective story.
Recensioni
Alias
4 Luglio 2009
Tutto si può dire di Himes, a cominciare dalla sua bravura narrativa, tranne che sia un ottimista. Ne volete le prove? Allora avventuratevi in questo noir che più noir non si può dove l’apparente banalità della trama diventa invece traccia per entrare in una Harlem che accentua all’estremo tutti i suoi elementi distintivi: chiusa, cattiva, sporca, spaccata tra bianchi e neri come non mai.
Il lieto fine conferma il pessimismo cosmico di Chester Himes.
Luciano Del Sette
Blow Up
settembre 2009
Noto in Italia soprattutto per il suo classico Rabbia ad Harlem, trasposto una ventina d’anni fa in un film molto carino, Chester Himes è in realtà autore di quasi venti romanzi in una vita travagliata e difficile. Si tratta di uno scrittore di polizieschi che però, essendo l’autore afroamericano, sono ambientati quasi sempre ad Harlem; il noir nero, se ci consentite la battuta idiota. Con ciò, Himes non si limita certo a portare nei suoi libri le inevitabili tematiche razziali dell’America del dopoguerra; le usa semmai come elemento aggiuntivo per arricchire le atmosfere cupe, quasi malsane, tipiche del suo genere.
Ne deriva un’indubbia efficacia narrativa che non ha nulla da invidiare a maestri come Chandler, ma anche, per rimanere in tempi più recenti, ad altri autori di noir anomali come Derek Raymond. Corri, uomo, corri! racconta, come il titolo lascia immaginare, la storia di una fuga, quella di un bravo ragazzo che assiste involontariamente ad alcuni omicidi e che diventa presto il futuro obiettivo del killer, un poliziotto psicopatico descritto con impressionante, crudo realismo. Come nella tradizione della Meridiano Zero, i noir della casa editrice non sono semplici storie d’azione, ma mostrano anche un’analisi introspettiva dei personaggi degna della cosiddetta letteratura alta.
Stefano B. Quario
bookshighway.blogspot.com
6 Agosto 2010
Le prime pagine sono straordinariamente nere, nerissime e folgoranti: non solo perché tre dei quattro protagonisti iniziali sono afroamericani, non solo perché l’aria (cupa e pesante) è quella dei grandi noir (la New York City di Chester Himes sembra la Los Angeles di Raymond Chandler) e non solo perché tutto comincia in una notte di follia e di paura, ma soprattutto perché ben presto si sprofonda e in un’oscura selva dell’anima i cui profili razzisti e xenofobi contribuiscono a rendere ancora più inquietante.
Un detective del NYPD, la polizia di New York, completamente sbronzo e, si scoprirà, parecchio psicopatico, uccide, a sangue freddo e senza alcun motivo, due inservienti di una tavola calda e tenta di ammazzarne un terzo, giusto per non lasciare testimoni. New York City, "una città pulita e pacifica, che si stava consumando poco alla volta", viene disegnata nelle geometrie ombrose di Chester Himes come un grande palcoscenico in cui, per dirla con le sue parole, va in scena "un mondo di orrore sempre più nero".
Volendo, potrebbero bastare i personaggi, a partire da Matt Walker (il detective con un debole per la bottiglia e per il grilletto) fino alla classica femme fatale, Linda Lou Collins, una cantante che crede di condurre i giochi (che hanno tutta una loro perversione psicologica tra vittime e carnefici) e invece è soltanto una particella in un meccanismo infernale. Invece, Corri, uomo, corri! è un grande romanzo perché spesso, senza preavviso, i ruoli s’invertono, dubbi e perplessità morali non esistono e neanche tante distinzioni tra bianco e nero o tra uomo e donna: la storia travolge tutto e tutti, a partire dai protagonisti per finire con il lettore.
Per cui capita, per esempio, che la vittima designata, Jimmy Johnson, l’unico scampato al massacro iniziale, ad un certo punto decida di ribaltare tutto quanto e in una discussione con Linda Lou Collins dice: "Possiamo restarcene qui tutta la notte, a discutere di cosa è giusto e cosa è sbagliato. Tu hai la tua opinione, e io ho la mia. Non riuscirai a convincermi, e io non posso convincere te. Saranno mille anni che la gente discute di giusto e sbagliato. Io ne ho abbastanza. Ho tutte le intenzioni di uccidere quel farabutto schizofrenico e continuare a vivere la mia vita".
È una lotta per la sopravvivenza senza esclusione di colpi che Chester Himes tratteggia con un ritmo serrato, teso e sincopato, quella scrittura che ha fatto dire a James Sallis: "Non esiste altro scrittore americano che abbia saputo creare una tale quantità di scene memorabili, situazioni toste e durature come un’impronta lasciata nel cemento, e in più con una stupefacente economia di dialogo e linguaggio".
Tra le righe e lungo il profilo del romanzo, Corri, uomo, corri! non nasconde la ben nota urgenza di Chester Himes per la condizione afroamericana anche se, almeno in questo caso, diventa l’occasione per un sguardo più complesso, quando infatti fa notare che "forse era successo appena la notte scorsa, oppure molto tempo fa. Ma, da qualche parte, all’ingranaggio dell’american way of life era saltato un dente; o magari era proprio una questione di cuore. Il cuore che aveva perduto un battito, senza più recuperarlo". Un maestro del noir e un grandissimo scrittore.
Marco Denti
contornidinoir.blogspot.com
28 Gennaio 2011
Scopro con piacere un altro scrittore ex detenuto, come Edward Bunker.
Anche Chester Himes ha un passato da delinquente, come rapinatore di banche. Che la galera sia un ricettacolo di letterati? A parte gli scherzi, è il primo libro che leggo di questo scrittore e, lo devo dire, ha la capacità di creare una suspense nella descrizione della scena, che basta chiudere gli occhi per immaginare tutto. Io l’ho visto, non l’ho letto e basta, questo personaggio di colore perseguitato dagli eventi, ho visto la sua paura nel cercare di scappare, ho visto il terrore dei suoi occhi quando si è trovato di fronte alla morte. Himes cerca di farci uscire dagli stereotipi della società, dove l’uomo di colore è per forza un ladro o un assassino e la polizia è per forza chi ci viene a salvare. In questo esce prepotentemente il passato dello scrittore, che ha dovuto allontanarsi da un’America poco accogliente, per non voler dire estremamente razzista (e in questo Himes mi ha ricordato molto Lansdale per la capacità di trattare tematiche sociali nei propri romanzi), e parliamo della metà degli anni 30. Un romanzo duro, dove c’è poco spazio per i sentimenti, ma molto vivo e passionale nel contenuto.
Cecilia Lavopa
il Giornale
27 Luglio 2009
Il giovane afroamericano Jimmy Johnson ha la sventura di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e di assistere a quella che ha tutta l’aria di essere una vera e propria esecuzione. Jimmy fa l’inserviente notturno in una tavola calda di Harlem e, quando si rende conto che l’autore del duplice omicidio che si è appena consumato davanti ai suoi occhi è un poliziotto bianco, corrotto, razzista e pericolosamente dedito all’alcol, teme di aver le ore contate. Nonostante Harlem sia il suo mondo, un universo difficile e spietato in cui i neri hanno un margine di manovra superiore a quello di molte altre località americane, il tentativo di Jimmy di mettersi in salvo da quel poliziotto spietato e fuori di testa deve fare i conti con un ambiente diffidente e chiuso.
Corri, uomo, corri! (Meridiano Zero) di Chester Himes, il serrato racconto di un uomo in fuga in un mondo sempre più indifferente, viene finalmente riproposto in Italia. Finalmente, perché i lettori hanno avuto poco tempo per approfittare della sua prima edizione, messa in circolazione da una casa editrice in seguito assorbita da un gruppo editoriale maggiore.
Ma Chester Himes è uno di quegli autori che altri autori leggono e consigliano, uno di quei romanzieri che molti scrittori prendono a modello stilistico. La sua maestria nel creare la cornice ideale per una storia di violenza fisica e di abbattimento morale ne fa un precursore. Penna cinica e di un pessimismo più nero della sua stessa pelle, Himes fa di una trama noir individuale il ritratto di una comunità afroamericana pavida, non ancora infervorata dai primi venti di quella lotta progressista per i diritti civili che avrebbe infiammato una lunga stagione americana.
Jimmy Johnson è il perfetto esempio del nero americano medio che, per un gioco crudele del destino e non per scelta, non può fare a meno di gridare al mondo le sue ragioni. Non è solo la polizia a non credergli, non è solo un universo di bianchi a irriderlo e nemmeno la comunità profondamente afroamericana di Harlem a diffidare di lui, ma è persino la sua fidanzata a dubitare della sua sanità mentale, di fronte all’enormità delle accuse da lui mosse. "L’aveva raccontato a un sacco di gente… Alla sua ragazza; al procuratore distrettuale; a questo o a quell’agente… all’avvocato…
E nessuno gli aveva creduto. Eppure, era certo che gli sarebbe bastato abbordare il primo nero che passava di lì… per suscitare in lui quel senso di fiducia che nessun altro gli aveva dimostrato". Un’illusione che nemmeno un finale agrodolce, tutto da scoprire, riesce a sgombrare. Questa è una storia in cui la violenza, più sottintesa che descritta, la fa da padrona, una storia che una generazione intera di pensatori vicini al Blackpower deve aver consumato avidamente.
Sebastiano Pezzani
lconti.com
28 Aprile 2009
Qualche mese fa avevo parlato di Chester Himes e del suo fantastico Corri, uomo, corri!, da me tradotto per la vecchia Giano e uscito nel 2005, ma da tempo fuori catalogo. Si tratta di uno dei romanzi fondamentali di un grandissimo scrittore americano, al di là di ogni etichetta di genere, come sa benissimo chi ha letto Vite difficili di James Sallis, uno dei suoi massimi estimatori e studiosi (nonché biografo ufficiale). Sono felice di annunciare che il romanzo torna finalmente disponibile in libreria grazie alla lungimiranza di Meridiano Zero, e riporto di seguito i risvolti di copertina (che per questa edizione ho scritto io, quindi di più non potevo davvero fare…).
Un ringraziamento doveroso va a Marco Vicentini e al suo vulcanico ufficio stampa Matteo Strukul. Harlem rules! Testimone involontario di un duplice, brutale omicidio a sangue freddo, il giovane studente nero Jimmy Johnson – che lavora come inserviente notturno in una tavola calda di Harlem – diventa a sua volta bersaglio dell’implacabile assassino, un agente di polizia corrotto e ferocemente razzista che vive in uno stato di perenne ubriachezza. Teatro di questa convulsa caccia all’uomo è una Harlem surreale e iperrealista, una sorta di girone dantesco i cui abitanti si dividono tra cattivi e ancor più cattivi, oltre che una Manhattan mai così ostile e impenetrabile, pronta a respingere chiunque bussi alle sue porte in cerca d’aiuto.
E l’apparente lieto fine con cui si conclude la vicenda nasconde invece un terribile doppio fondo in cui il cinismo e il pessimismo cosmico dell’autore trovano, per l’ennesima volta, la loro conferma. Spremendo fino all’osso uno dei più antichi luoghi comuni del thriller, l’innocente in fuga braccato dalle forze del male, Chester Himes confeziona in questo romanzo una delle sue messinscene più macabre, i cui frequenti elementi di tragicommedia non fanno altro che rinforzarne la visione apocalittica e il nichilismo portato alle estreme conseguenze, soprattutto per quanto riguarda il perverso rapporto tra bianchi e neri.
A partire dal magistrale, lunghissimo alternarsi di piani sequenza che apre il romanzo, settanta pagine di fulminante adrenalina che alternano il punto di vista dell’assassino e delle sue vittime, per poi focalizzarsi definitivamente sul testimone in fuga, Himes organizza una folle gimcana per le strade, le case e i locali della metropoli newyorkese ma allo stesso tempo, pur nell’angoscia della caccia, riesce a dipingere un minuzioso quadro della vita quotidiana nella Harlem degli anni Cinquanta, in un brulicante turbinio di cabaret equivoci, bische clandestine, botteghe di barbiere e stazioni di polizia: un mondo popolato da personaggi grotteschi e dominato dall’avidità e dal disprezzo, un sabba infernale in cui la differenza tra gli uomini è fatta dai soldi e dal colore della pelle. Chester Himes, nato a Jefferson City (Missouri) nel 1909 da una famiglia della media borghesia nera e scomparso in Spagna nel 1984, fin da adolescente ha avuto grossi guai con la giustizia – truffe, emissione di assegni a vuoto, furti d’ogni genere – che culmineranno, nel 1929, con una condanna dai venti ai venticinque anni per rapina a mano armata. È in carcere, all’inizio degli anni Trenta, che inizia a scrivere e pubblicare (firmandosi, all’inizio, col numero di matricola) e nel 1936, al suo rilascio, decide di intraprendere la carriera dello scrittore, pubblicando alcuni notevoli romanzi a sfondo sociale che non ne decreteranno però il successo._Amareggiato e in serie difficoltà economiche, costretto ad accettare una serie di lavori saltuari e di bassa lega pur di sbarcare il lunario, nel 1952 Himes parte per l’Europa, dove trascorrerà il resto della sua tormentata esistenza, rientrando negli Stati Uniti per brevissimi periodi e non più di un paio di volte._
Himes è autore di diciassette romanzi, uno dei quali rimasto incompiuto, che appartengono in prevalenza al cosiddetto "Ciclo di Harlem" che gli ha dato la celebrità e tra cui ricordiamo Rabbia a Harlem, Cieco, con la pistola, Soldi neri e ladri bianchi.
Luca Conti
lettera.com
2 Febbraio 2006
Jimmy Johnson è l’unico sopravvissuto (nero) ad un massacro futile e crudele perpetrato da un poliziotto (bianco) completamente allo sbando.
L’intreccio delle loro esistenze sullo sfondo di una cupissima New York è un tuffo in un girone dantesco di ambiguità e paura. Corri, uomo, corri! : Nel cuore di tenebra di New York, la caccia all’uomo di Chester Himes Possiamo restarcene qui tutta la notte, a discutere di cosa è giusto e cosa è sbagliato. Tu hai la tua opinione, e io ho la mia. Non riuscirai a convincermi, e io non posso convincere te.
Saranno mille anni che la gente discute di giusto e sbagliato. Io ne ho abbastanza. Ho tutte le intenzioni di uccidere quel farabutto schizofrenico e continuare a vivere la mia vita. Un detective psicopatico ed alcoolizato, una femme fatale che sprizza odore di pericolo da tutti i pori, un innocente perseguitato pronto a diventare carnefice a sua volta e un’altra mezza dozzina di personaggi che sguazzano nell’ambiguità morale popolano le quinte cupe e nerissime di Corri, uomo, corri!.
Un romanzo di Chester Himes che comincia in modo devastante e ben presto trascina il lettore in "un mondo di orrore sempre più nero". I ruoli s’intrecciano e si sovrappongono, le prede diventano cacciatori e le differenze tra i bianchi e i neri, nelle strade senza speranza di una New York livida e maestosa sono azzerate e non perché le ombre del razzismo e della segregazione siano sfumate (anzi), ma perché il fallimento generale di un’idea, di un sogno e persino di un mondo sembra coinvolgere tutti.
Scrive Chester Himes in uno dei passaggi più espliciti di Corri, uomo, corri! : "Forse era successo appena la notte scorsa, oppure molto tempo fa. Ma, da qualche parte, all’ingranaggio dell’american way of life era saltato un dente; o magari era proprio una questione di cuore. Il cuore che aveva perduto un battito, senza più recuperarlo". E con un ritmo tambureggiante, e senza una parola di consolazione per l’infausto destino dei suoi personaggi, Chester Himes trasforma un romanzo noir in una sorta di straordinaria suite jazzistica. Da non perdere, anche quarant’anni dopo. Marco Denti lideablog.wordpress.com 23 Giugno 2009 Un poliziotto bianco e ubriaco entra in una tavola calda di New York mentre tre inservienti neri del turno notturno svolgono, tranquillamente, il loro lavoro. Il poliziotto è convinto che quei neri abbiano rubato la sua auto, che invece si è persa nei rivoli del troppo whiskey ingollato durante il servizio dal poliziotto stesso. Se nella Harlem del 1966 non si trova più un’automobile chi, se non un nero, può averla fatta sparire?
A loro, diversamente, dimostrare la propria innocenza. La discussione degenera, mentre spunta tra le mani del bianco una pistola sottratta ad un vecchio gangster. Il grilletto è sensibile, troppo sensibile. Basta una lieve, involontaria pressione e un colpo parte, facendo secco il primo dei tre neri.
Ormai la frittata è fatta, nessuno crederà mai al fatto che si sia trattato veramente di un incidente. Tanto vale andare fino in fondo, ormai, e ammazzare anche il secondo inserviente. Con il terzo le cose, invece, non vanno come dovrebbero, riesce a scappare e a creare, al poliziotto e a se stesso, un mare di problemi. Sono queste, più o meno, le prime dieci pagine del romanzo di Chester Himes, Corri, uomo, corri!, recentemente ripubblicato da Meridiano Zero e con la nuova traduzione firmata da Luca Conti. Himes è uno dei padri "nobili" del noir americano e, per ovvia estensione, mondiale, ne è uno dei Padri fondatori e il primo scrittore nero di genere. Un po’ come per Edward Bunker, anche per Himes la storia della sua vita è più avvincente e ricca di gustose sfaccettature – per noi che di noir, hard boiled et similia ci nutriamo quotidianamente – rispetto a qualsivoglia loro opera di fantasia.
Questo romanzo, però, mi ha lasciato un po’ l’amaro in bocca, non è mai stato realmente in grado di farmi gettare a capofitto nella lettura, ad irritarmi ogni qualvolta io dovessi interromperla. Corri, uomo, corri! ha il sapore dell’incompiuto, della buona idea troppo frettolosamente buttata su carta e mandata in stampa. Nonostante ciò il romanzo si poggia in modo solido sui dialoghi, una di quelle cose che uno scrittore è in grado di scrivere oppure no.
A differenza di molte altre recensioni scovate e lette su internet, non credo che Harlem e l’ambiente cittadino in generale siano i veri protagonisti di questo libro. Sono quello che sono, cioè una scenografia sullo sfondo necessaria a dare ai personaggi della storia un luogo fisico in cui muoversi. Harlem ci sta bene perché è ben conosciuta da Himes – non a caso è famoso per il suo "Ciclo di Harlem" – e perché è un concentrato di quelle che sono le contraddizione degli Stati Uniti in questi anni difficili, anche nel liberal nord, dove magari non ci sarà il Klan come nel sud, ma in cui la parola di un nero non vale come quella di un bianco, a maggior ragione se quest’ultimo è anche un poliziotto.
Non sono poi molti, tra l’altro, quelli a cui interessa veramente della morte di due inservienti neri, la città fagocita tutto per svegliarsi il mattino dopo senza neanche un po’ di bruciore di stomaco: "Alle undici di mattina, insomma, gli omicidi erano stati passati al setaccio in maniera efficiente, priva d’emozione, meticolosa; e, nei limiti del possibile, la piccola scalfitura che aveva intaccato la dura scorza della città si era ormai richiusa e rimarginata". Cos’è Corri, uomo, corri! – l’incitazione che il cervello di Jimmy Johnson, l’inserviente sopravvissuto e in fuga, gli ripete in continuazione – se non un grande romanzo psicologico, in cui la tensione è data non tanto dall’azione e dagli inseguimenti, non troppo riusciti, ma dalla profonda introspezione psicologica che porta Himes ad immedesimarsi ora nelle vesti dell’assassino Matt Walker, ora in quelle del fuggitivo Jimmy?
La stessa Harlem più che un quartiere vero e proprio formato da una maggioranza di neri sembra essere un luogo della mente in cui la componente psicologica ha la meglio su quella sociologica: "Uscì dalla tavola e si fermò davanti alla vetrina della libreria di fianco all’hotel, a guardare l’esposizione dei volumi di autori neri. Di colpo, si sentì protetto. Laggiù, nel cuore della comunità nera, si ritrovò cullato da una sensazione di sicurezza assoluta. Era circondato da neri che parlavano la sua stessa lingua e pensavano nella sua stessa maniera; veniva servito da personale nero in locali che si rivolgevano a una clientela nera; si ritrovava davanti agli occhi la produzione letteraria degli scrittori neri. Nero, a Harlem, era una parola grossa.
Non c’era da stupirsi se tanti neri, in effetti, desideravano vivere in mezzo alla propria gente. Si sentivano al sicuro". Per concludere una chicca sullo stile di Himes. Per descrivere la specularità di Jimmy e Walker e il cordone ombelicale che li unisce e guida le loro azioni, Himes abbandona per un attimo la letteratura per approdare al cinema. Riporto poche righe per rendere l’idea: "Jimmy Si appoggiò al muro, preda della nausea, mentre gocce di sudore freddo gli colavano giù per il corpo accaldato, simili a pigri vermi striscianti. Walker era tornato a riporre la pistola nella tasca del soprabito e, a sua volta, si era lasciato andare contro la parete della scala di servizio, depresso e frustrato". E così, alla fine, oltre a chiudere il libro dobbiamo pure spegnere il lettore dvd.
milanonera.com
20 Agosto 2008
"Aveva la sensazione che qualcosa fosse andato storto da qualche parte. Forse era successo appena la notte scorsa, oppure molto tempo fa. Ma, da qualche parte, all’ingranaggio dell’american way of life era saltato un dente; o magari era proprio questione di cuore. Il cuore che aveva perduto un battito senza più recuperarlo.".
Siamo negli anni del dopo Kennedy e lo scrittore di colore Chester Himes descrive con queste parole il brivido di consapevolezza da cui è percorso il sergente Brock alle prese con un caso di omicidio plurimo. A questo punto della narrazione, il lettore è già informato di tutto: nel lindore degli smalti e dell’acciaio inox di una moderna tavola calda della quinta avenue, una belva spietata ha fatto strage e, non sazia, sta braccando un’altra preda. Nei bui sotterranei dei grattacieli, sui marciapiedi affollati di down town, nei night club di Harlem, fin nei più intimi recessi della vita privata della vittima designata… Senza sosta. Di giorno e di notte. La belva è un bianco, trent’anni, occhi di ghiaccio, un ciuffo di capelli biondastri sulla fronte. Poliziotto. La preda è un nero, sui venti, occhi costantemente descritti con le pupille dilatate dal terrore, il corpo vigoroso e reattivo nella costante ricerca di una via di fuga. Lavapiatti e studente. Il romanzo si apre con un incalzante incipit di cinquantuno pagine durante le quali non è concessa al lettore alcuna pausa.
Sullo sfondo della metropoli al risveglio – reso con taglio descrittivo iperrealista – l’azione fila ad una velocità folle per mantenere costante l’inquadratura su inseguitore ed inseguito. Walker e Jimmy. Il poliziotto e lo studente. Il bianco e il nero. La belva e la preda. Ma non si pensi che sia tutto così semplice. Himes sa per esperienza che il mondo è un luogo singolare dove le ragioni del perseguitato sono, contro ogni logica apparente, le più difficili ad essere comprese ed accolte. Sarà colpa di quel battito di cuore perso… Fatto sta che al lettore non è consentito distrarsi. Fino all’epilogo. Vagamente amaro come si conviene alle prove migliori di questo genere letterario. Himes scrive questo romanzo durante il suo soggiorno francese per la Série noire di Gallimard.
Nato nel Missouri (Jefferson City – 1909), appena diciannovenne viene condannato a vent’anni di galera per rapina ed è solo l’ultima di una sfilza di misure persecutorie subite – tra cui l’espulsione dalla Ohio State University… – da inquadrarsi nel clima di tensioni razziali degli anni ’50; così si trasferisce in Francia ed è qui che si realizzano le sue fortune letterarie. Muore in Spagna nel 1984 più o meno dimenticato. Questo autore appartiene ad una subcultura particolare, quella che coincide con i limiti del ghetto nero piœ famoso, Harlem, e si collega alla letteratura della "negritudine", che aveva in James Baldwin (chi ricorda lo stupendo "Un altro mondo"…) uno dei suoi più risaputi esponenti.
Questa letteratura testimoniava di una lotta di razze come dialettica selvaggia. La stessa avvertibile nel suono aspro e disperato del jazz di quegli anni: non sarà un caso se lo stesso percorso personale ed artistico di Chester Himes fu seguito da numerosi musicisti di colore americani approdati sulla Senna per sottrarsi alla spietatezza del sistema e ai suoi pusher-aguzzini; tra i tanti, Dexter Gordon il cui sax ha gradazioni tonali che ricordano da vicino la scrittura b&w di questo scrittore.
Il titolo. Corri, uomo, corri! è la traduzione letterale dell’originale Run man run. Ebbene, dopo aver letto il romanzo, ciascuno concorderà sul fatto che esso, più che richiamare testualmente un incitamento rivolto da Jimmy a se stesso all’inizio della sua pazzesca avventura, rappresenta un ammonimento per chi si dispone alla lettura perché, dopo le prime righe, sfido chiunque a fermarsi… Paolo Donati nientelietofine.splinder.com 12 Novembre 2006 È Harlem lo sfondo di questo noir di Chester Himes. In una società incapace di aprire gli occhi di fronte agli orrori del razzismo, l’autore ci fa capire che non esiste nulla di completamente buono e onesto, nemmeno all’interno della comunità nera di New York. La storia può sembrare banale e già sentita, ma forse non è così! Matt Walker, detective bianco, in un momento di isteria alcolico-razzista, uccide due inservienti neri. Jimmy Johnson, involontario testimone, nero pure lui, dopo essere sfuggito miracolosamente alla ferocia del poliziotto, cerca la salvezza tra locali di blues, dove canta la sua donna, e i locali di soul food. Ma la vita e la comunità del ghetto non sembrano in grado di proteggere il giovane.
I vicini di casa, la sua Linda, i gestori dei locali, i polizziotti: nessuno sembra credere a Jimmy che decide, oramai solo e braccato, di procurarsi una pistola, e di vendicarsi da solo. In questo libro "Himes non risparmia nessuno, bianco o nero che sia. Fino al capitolo finale, nel quale disincanto e misoginia si compongono in un feroce e beffardo bozzetto…;" E nel quale, apparentemente la giustizia e l’amore trionfano. Forse. Gli occhi di Jimmy, l’unica sua parte che ancora poteva mostrare qualcosa, si accesero di speranza."Allora stiamo ancora insieme?" Lei lo guardò con indignazione."Razza di stupido, ma cosa ti credi? Che voglio perderti proprio ora? Con tutto quello che mi hai fatto passare!"
nonsolonoir.blogspot.com
17 Gennaio 2006
Generalmente – o almeno così parrebbero indicare le mie poche esperienze in questo senso – direi che chiunque abbia passato più tempo dietro una pistola, che dietro una macchina da scrivere, non può saper scrivere; sembrerà forse una generalizzazione, ma nel noir l’esperienza diretta di delitti e criminali è inversamente proporzionale alla godibilità dello stile: si paragoni, ad esempio, lo stile di un autore come Chandler, completamente digiuno di esperienze criminali, con quello di Hammett, decisamente più preparato in materia di delitti…; eppure nel caso di Himes bisogna ricredersi. Una prosa alla Hammet, ma segnata da tematiche razziali (ricorrenti nell’opera di Himes) ci conduce in una Harlem degli anni cinquanta piena di bar, locali notturni, venditori d’armi da fumetto, puttane e poliziotti.
Il giovane nero Jimmy Johnson, studente e impiegato in una catena di tavole calde testimone di un duplice omicidio commesso da un poliziotto ubriaco, si ritrova a dover correre per la sua vita, perchè è difficile per un ragazzo nero convincere le forze dell’ordine che un agente bianco abbia "dato di matto" uccidendo due neri e ferendone un terzo senza motivo. Il romanzo, scritto in Francia nel 1966 (Himes lasciò gli Stati Uniti dopo aver scontato una condanna per rapina a mano armata) scorre bene all’inizio, ma rallenta (in maniera forse eccessiva) e non si riprende del tutto neppure sul finale; ciononostante è reso godibilissimo dalla descrizione di un ambiente come la Harlem degli anni ’50, scenario ideale per un giovane di colore pronto a perdere l’onestà per salvare la vita. Confrontato con i già citati noir di Hammett, ai quali potrebbe, per stile, essere paragonato, Corri, uomo, corri! se ne allontana per la scelta dei personaggi (decisamente più umili), e per una certa (tutt’altro che spiacevole) schematicità dell’intreccio.
Fabrizio Fulio-Bragoni
Repubblica
3 Dicembre 2005
Thriller mozzafiato di una voce nera Chester Himes è lui stesso un personaggio più romanzesco dei suoi romanzi. Nero, di famiglia borghese (suo padre era un professore di college), traumatizzato da episodi di razzismo quotidiano, il giovane Himes, nato in Missouri nel 1909, non ha tardato molto a farsi acchiappare dalla polizia dopo l’ennesimo pasticcio goffamente perpetrato e a finire in prigione per otto anni.
Sono stati gli anni del penitenziario a insegnarli l’uso della macchina da scrivere, la lettura di Hammett e l’elaborazione delle sue esperienze: ma la sua, nonostante la scoperta della scrittura e di una cerchia di amici protettivi, non è stata comunque una vita facile, e l’ha portato dagli Usa a Parigi e poi in Spagna, dove è morto nel 1984, già scrittore di culto.
Corri, uomo, corri!, ci propone un thriller mozzafiato, realistico fino allo choc e al tempo stesso, a tratti, ingenuo dell’ingenuità della vera paura. La storia: il giovane Jimmy Johnson, che si mantiene agli studi lavorando in un’impresa di catering, è l’involontario testimone della morte di due colleghi, uccisi da un poliziotto ubriaco, Matt Walker, che non esita a sparare anche a lui.
Al risveglio dal coma, nessuno vuole credere a quello che Jimmy afferma, che l’assassino è il poliziotto. E tra sbirro e vittima si mette in moto un drammatico gioco a nascondino - da una parte Walker che vuole ucciderlo per eliminare il testimone scomodo, dall’altra la vittima che prima si limita a scappare e poi decide di prendere in mano una pistola. Il tutto sullo sfondo di una Harlem invernale anni ’60, che Chester Himes descrive graficamente nei colori, negli odori, nel profumo di sesso che tutto pervade, mentre la polizia, sulla scia di un pregiudizio razzista, insiste nel non capire quale grumo di corruzione (bianca) si nasconda nel suo centro.
Irene Bignardi
rootshighway.it
luglio 2006
Un detective psicopatico ed alcoolizato, una femme fatale che sprizza pericolo da tutti i pori, un innocente perseguitato pronto a diventare carnefice a sua volta e un’altra mezza dozzina di personaggi che sguazzano nell’ambiguità morale popolano le quinte cupe e nerissime di Corri, uomo, corri! Un romanzo di Chester Himes che comincia in modo devastante e ben presto trascina il lettore in "un mondo di orrore sempre più nero".
I ruoli s’intrecciano e si sovrappongono, le prede diventano cacciatori e le differenze tra i bianchi e i neri, nelle strade senza speranza di una New York livida e maestosa sono azzerate e non perché le ombre del razzismo e della segregazione siano sfumate (anzi), ma perché il fallimento generale di un’idea, di un sogno e persino di un mondo sembra coinvolgere tutti.
Scrive Chester Himes in uno dei passaggi più espliciti di Corri, uomo, corri!: "Forse era successo appena la notte scorsa, oppure molto tempo fa. Ma, da qualche parte, all’ingranaggio dell’american way of life era saltato un dente; o magari era proprio una questione di cuore. Il cuore che aveva perduto un battito, senza più recuperarlo". E con un ritmo tambureggiante, e senza una parola di consolazione per l’infausto destino dei suoi personaggi, Chester Himes trasforma un romanzo noir in una sorta di straordinaria suite jazzistica. Da non perdere. Marco Denti scanner.it 25 Ottobre 2009 Chester Himes è nero e anche scrittore e quello che lascia ai posteri sono libri infuocati di rabbia e di una forte consapevolezza umana: dignità e pari diritti per chi è diverso a causa del suo colore di pelle.
La sua cultura è legata al ghetto nero più famoso, Harlem, e affonda le radici nella letturatura nera, che ha come esponente di spicco del periodo, James Baldwin. Nato nel Missouri, precisamente a Jefferson City nel 1909, appena dicianovenne viene condannato a vent’anni di galera per rapina, seguito da una sfilza di misure persecutorie, come l’espulsione dalla Ohio State University per motivi inerenti al clima di tensione razziale degli anni cinquanta. Trasferitosi in Francia, inizia la sua attività di scrittore, inebriato da questo clima tollerante e aperto che si respirava in Europa.
La lettura di Corri, uomo corri! è la rappresentanza di una lotta di razze che diventa selvaggia, inaffiato dal suono aspro del jazz di quegli anni, in una rigida New York City di fine anno, durante una notte gelida e folle, un poliziotto della Buon costume, Matt Walker, uccide accidentalmente un inserviente nero in una tavola calda. Nulla è quello che sembra e i personaggi si trasformano di continuo, con il loro puzzo dolente che si portano appresso, in una babele metropolitana dove nessuno è innocente.
Il taglio descrittivo di Himes non indugia nel descrivere come spietata una città crogiolo di razze immerse in un bacino d’odio, dove gli esseri umani si tramutano in bestie sempre inclini alla vendetta o al piacere dei sensi. Ottimamente ritmate le scene con una tempistica secca, inframezzata da dialoghi spicci, che la fanno assomigliare ad una soggetto cinematografico, dalla forma visiva accentuata nel saper dare spontaneità alle azioni in poche righe. Una lettura coinvolgente che porta il lettore a contatto con i personaggi e si inabissa in questo mondo stretto tra la passione e il sangue.
Matteo Merli
sugarpulp.it
5 Giugno 2009
Corri, uomo, corri!, (Meridiano zero) noir del ’66 di Chester Himes, il "Chandler nero", "l’Hammett di Harlem", è sicuramente un classico coi fiocchi. In una rigida New York City di fine anno, durante una notte gelida e folle, un poliziotto di quella che un tempo si definiva "Buon Costume", Matt Walker, uccide accidentalmente, come ne Lo straniero di Camus, un inserviente nero in una tavola calda.
È solo l’inizio, arrembante e cinematografico, per l’asciuttezza e la velocità delle scene, di questo ottimo romanzo. Se ne ricorderà forse William Friedkin per i suoi polizieschi secchi e nevrotici come Il braccio violento della legge e Vivere e morire a Los Angeles. E si vive e si muore con molta facilità nella Grande Mela descritta da Himes, nero e reietto come molti suoi personaggi, il quale confeziona un plot che verte tutto sullo scambio di identità, apparente, fra vittima e carnefice: il testimone oculare, sopravvissuto alla mattanza di Walker, Jimmy Johnson, sarà costretto per tutto il libro a guardarsi da questo losco figuro che a lui sembra essere sempre "alto tre metri".
Eppure lo stereotipo del villain è lontano anni luce dalla disincantata ed esistenziale poesia di Himes. La potremmo definire così, senza tema: personaggi che rimangono impressi nella memoria con un semplice schizzo descrittivo, per l’atmosfera, dolente e ferina, che si portano addosso. Nessuno è realmente innocente nella Babele metropolitana dello scrittore: né uomini né donne, né bianchi né neri.
Ognuno ha il suo fardello di colpa, anche se lo schema giustizialista compie il suo dovere, alla fine. Ma è ben altro ciò che interessa ad Himes: in tempo ancora bui, descrive con spietatezza, senza mezzi termini, la giungla cittadina, coacervo di razze e di cattive intenzioni, dove gli esseri umani sono come bestie (splendida la descrizione del night club come una stalla), dove l’unica legge è quella del taglione, in cui pochi cenni possono bastare per dare il la a una tremenda vendetta o una conturbante e animalesca goduria dei sensi. E lo fa tenendo conto delle tempistiche, calibrate a dovere, dei dialoghi; con un’accorta regia delle scene, che distinguono ogni capitolo come fosse una ripresa a sé stante; e con una sottolineata cura per le certosine perlustrazioni degli atteggiamenti, delle sfumature, dei tranche de vie che riesce, in poche righe, a tratteggiare, senza scadere mai nel bozzetto né nella sensazionalità enfatica. Complice una scrittura diretta, che prende a prestito dal parlato molta della sua spontaneità, senza però forzare la mano, Himes conduce il lettore a stretto contatto dei suoi personaggi.
Li segue passo passo, li fa sbronzare, ci balla assieme, assiste ai loro coiti (sempre in disparte), carezza le loro ferite, si prende le loro pallottole, ascolta la musica che si sussurra fra le pieghe contratte di palazzi oscuri, fumosi bar di periferia e ristoranti stipati di gente e di leccornie pesantissime e gustose. Tutto questo aspettando che l’anno termini, squassato e stralunato dai contorni avulsi e convulsi di una città sommersa di neve, ma il cui cuore è gonfio di passione, di sangue, e di odio. L’odio di chi disprezza chi è diverso da sé, e, anche se non lo vuole ammettere, ha come unico obiettivo la sua distruzione, il suo annientamento, e la propria, presunta, salvezza.
Alessandro Romano
thrillermagazine.it
9 Giugno 2009
Nell’America del razzismo…
Già mi ero allenato con La gabbia delle scimmie di Victor Gischler. Voglio dire a correre di qua e di là per gli spazi creati dal noto scrittore insieme a Charlie Swift detto il "Sarto". Per cui, quando mi sono trovato davanti a Corri, uomo, corri! di Chester Himes, Meridiano Zero 2009, non l’ho fatta troppo lunga. Se c’è da correre, corriamo. A dir la verità un po’ di titubanza l’ho avuta, perché alla fine del primo libro ero rimasto a terra con il fiatone come i cani d’estate, ma poiché non mi piace arrendermi ho accettato di nuovo la sfida. E questa volta mi sono trovato a mulinar gambe insieme a Jimmy Johnson.
Non in Florida ma tra i vicoli di Harlem. Jimmy Johnson, dicevo, giovane studente nero che lavora come inserviente notturno in una tavola calda "bersaglio dell’implacabile assassino, un agente di polizia corrotto e ferocemente razzista che vive in uno stato di perenne ubriachezza".
Praticamente il detective Walker, Matt Walker, trentadue anni, scapolo e donnaiolo. Che ha fatto fuori due neri in un batter d’occhio. Il terzo, il nostro Jimmy è in ospedale infagottato come un pazzo. Nessuno gli crede (cioè che il poliziotto gli abbia sparato), né la sua fidanzata, né il suo avvocato che lo ha fatto liberare. E ora si trova a respirare aria di città con la fifa addosso che Walker gliela faccia pagare.
Dubbi, tormenti, angoscia, paura in un continuo confronto se stesso e (soprattutto) con la sorella. Solo contro tutti come nel più classico dei classici. E se si deve morire lo si faccia a viso aperto. Linguaggio secco, duro, senza tanti fronzoli, talora spietato come gli esseri che si muovono in questo caos di città "tra cabaret equivoci, bische clandestine, botteghe di barbiere e stazioni di polizia". E puttane.
Chi vince è il colore della pelle e il dio quattrino. Ma non sempre le storie finiscono male. Fabio Lotti Venerdì 24 Luglio 2009 "Soffriamo di un eccesso d’arte," ha scritto Henry Miller in The Wisdom of the Heart. "Ne siamo schiacciati. E questo significa che, invece di una visione delle cose personale e creativa, ci ritroviamo in possesso di una banale visione estetica."
Chester Himes, invece, di visione estetica non aveva traccia. Per usare la definizione del giornalista che scrisse nel 1970 un suo ritratto per Life, era un "veterano incallito", un professionista dallo sguardo penetrante e affilato come una lama. Tutta la sua opera è impregnata di questa impronta indiscutibilmente personale, tanto che i romanzi del ciclo di Harlem sono sui generis, quasi una forma letteraria a sé stante. "Le mie storie vengono fuori dai recessi più nascosti della mente del nero americano," ha detto Himes. La sua Harlem è pura proiezione mentale, un concentrato di sensazioni, intelletto e istinto: il cuore nero dell’America, in tutti i sensi. Himes si è spostato dalla scoperta alla creazione, dalla rappresentazione alla poesia epica.
Chester Himes era nato il 29 luglio 1909 a Jefferson City, nel Missouri, crescendo poi a Cleveland, nell’Ohio. I genitori appartenevano alla classe media; la madre era una donna dalla volontà d’acciaio, il padre un professore universitario che si era smarrito nel corso degli anni, fino a ridursi a sbarcare il lunario come carpentiere. Himes frequentò la Ohio State University, ma fu costretto ad abbandonare gli studi dopo una rissa in un locale notturno. Poi trovò impiego come garzone in un albergo di Cleveland, calandosi in una vita da truffatore, tra alcol e gioco d’azzardo.
Dopo due condanne per furto ed emissione di assegni a vuoto, sospese entrambe, nel 1929 venne condannato a una pena dai venti ai venticinque anni di lavori forzati nel penitenziario statale dell’Ohio per rapina a mano armata. Ne scontò sette e cinque mesi prima di ottenere la libertà condizionata. Fu in prigione che Himes iniziò a scrivere. I suoi primi racconti furono pubblicati quasi subito sui giornali della comunità nera. Nel 1934, un racconto, firmato non col suo vero nome ma col numero di matricola da galeotto, apparve su Esquire, che ne acquistò altri due prima che Himes uscisse dal carcere nel 1936, e ne pubblicò altri sei negli anni seguenti. Gli anni successivi al rilascio furono molto duri. Pur con l’appoggio del premio Pulitzer Louis Bromfield, Himes ebbe difficoltà a trovare un editore per il suo romanzo Black Sheep. Finì per unirsi alla marea di afro-americani costretti a migrare verso Los Angeles per trovare impiego nella nascente industria bellica; e fu proprio il suo lavoro nei cantieri navali della città a fornirgli l’ambientazione (e non poco astio e rancore) per il suo primo romanzo a raggiungere la pubblicazione, E se grida, lascialo andare (1945). Il romanzo successivo, Lonely Crusade (1947), ebbe riscontri talmente scoraggianti da precipitare Himes in un nuovo abisso di amarezza e rancore, facendogli smarrire la fiducia in se stesso. Trovò impiego come custode, poi come portinaio e fattorino d’albergo.
Nel 1948 pronunciò un appassionato discorso all’università di Chicago sul tema "Il dilemma dello scrittore nero". I cinque anni seguenti lo videro per lo più incapace di scrivere, e nel 1952, dopo la pubblicazione del romanzo Cast the First Stone (scritto sedici anni prima col titolo Black Sheep) e la sua generale, pessima accoglienza, Himes partì per l’Europa. I suoi romanzi polizieschi nacquero quasi per caso, durante un lungo soggiorno a Parigi. Nel consegnare il manoscritto di Pinktoes all’editore Gallimard, Himes, sempre attanagliato da un profondo bisogno di soldi, si era imbattuto in Marcel Duhamel, curatore della Série Noire nonché traduttore di E se grida, lascialo andare. Duhamel gli chiese di scrivere un poliziesco per la collana da lui diretta e, alle perplessità dello scrittore, rispose: "Trovati un’idea. Poi attacca con l’azione: qualcuno che fa qualcosa, che so, un uomo allunga una mano e apre una porta, la luce gli batte negli occhi, l’uomo si volta, guarda su e giù nel corridoio… Azione, sempre azione, in dettaglio. Immagini. Come al cinema. Scene sempre visibili. Niente flussi di coscienza. Non ce ne frega niente di chi pensa cosa, vogliamo soltanto le loro azioni. Sempre azione. Sbattitene, se la cosa non ha senso.
Questo si vedrà alla fine. Dammi 220 pagine dattiloscritte". Un po’ alla volta, basandosi sull’impianto di una vecchia truffa all’americana di cui conosceva anche i dettagli, Himes si accorse che il libro iniziava a prendere forma, quasi scrivendosi da solo, in una sorta di improvvisazione. Tornò da Duhamel, con ottanta pagine, a chiedere qualche altro consiglio e un po’ di quattrini. Li ottenne entrambi. Duhamel si mostrò entusiasta di quanto Himes aveva prodotto. "Butta giù un altro centinaio di pagine, magari centoventi," gli disse, "e ci siamo… Non lasciar cadere la suspense. E non far parlare troppo i tuoi personaggi. Manda avanti la narrazione a forza di dialogo, come faceva Hammett.
Sono i personaggi che fanno le descrizioni. Tu, stanne fuori." Ma non era a Hammett o a Chandler che Himes intendeva guardare, quanto piuttosto a Faulkner. Iniziò a leggere e rileggere Santuario, in quello che divenne una specie di rituale preparatorio per tutti i suoi successivi polizieschi. Il primo romanzo del ciclo fu pubblicato nel 1957 con il titolo di La reine des pommes, e sulla copertina vantava gli elogi di Jean Cocteau, Jean Giono e Jean Cau.
L’anno seguente, il libro vinse il Grand Prix de la Litérature Policière. I romanzi di Himes sono straordinari: non esiste niente di simile, in tutta la letteratura americana, e l’autore merita a buon diritto lo stesso tipo di approvazione conseguito da un altro grande anticonformista come Raymond Chandler.
Ma per Chester Himes l’America non ha mai trovato spazio, e i suoi libri sono andati quasi perduti. Oggi, a cent’anni dalla sua nascita, Himes rimane un fantastico osservatore e un prodigioso inventore, che agisce per istinto e sensazioni, puntando dritto alla sua visione del mondo, che non può essere ridotta alla mera espressione di una o più idee. Non esiste un altro scrittore americano che abbia saputo creare una tale quantità di scene memorabili, aspre e durevoli come un’impronta nel cemento, e con una stupefacente economia di dialogo e linguaggio.
Fra i suoi libri è da ricordare Corri, uomo, corri! (Parigi, 1959; Stati Uniti, 1966) che è l’unico poliziesco di Himes senza personaggi fissi, e spazia dal romanzo naturalista alla cruda intensità del ciclo di Harlem. Il guardiano notturno Jimmy Johnson, un giovanotto di colore che ha assistito all’insensato e brutale omicidio di due suoi colleghi, si ritrova braccato dall’assassino, un poliziotto newyorkese di nome Matt Walker, autentico psicopatico con un odio furibondo per i neri. Himes racconta di aver lavorato sodo sull’attendibilità e la precisione di questo libro, tanto da caratterizzare Walker con i propri blackout di alcolizzato, per conferirgli un maggior realismo.
Ma, come a ragione ci indica un critico come Stephen Milliken, la vera minaccia che incombe su Jimmy Johnson non è tanto il singolo psicopatico che occupa una qualunque posizione di potere, quanto "l’esplosione psicotica del razzismo a livello nazionale". Perché, per quanto tetri possano essere, per quanto malmenati dalle torture loro inflitte dalla storia, i libri di Himes intendono celebrare la lotta di un singolo uomo per risalire la corrente in mezzo a tremende avversità: contro la sua stessa vita, la sua stessa epoca, il suo stesso carattere, contro i naturali limiti delle stesse forme espressive da lui prescelte. E tutto questo per riuscire a dare un unico, nitido sguardo all’eterno volto della verità, per metterlo in salvo da quella che Baudelaire chiamava "la pazzia della vita quotidiana".
James Sallis