Autore:John Burnside
Un’antica storia persiana narra di come l’imperatore mogul Akbar il Grande, dopo una discussione con i suoi consiglieri sulle origini del linguaggio, avesse fatto costruire un palazzo per un singolare esperimento: far allevare dei neonati da balie e servitori muti. Senza stimoli esterni, i bambini non avrebbero sviluppato alcun tipo di comunicazione: il palazzo divenne noto con il nome di Gang Mahal, "la casa del silenzio". Luke, rimasto solo dopo la morte della madre, è affascinato a livelli maniacali dal potere della parola e dalla sua natura, e decide di coltivare la sua ossessione.
Quando mette un annuncio sul giornale per raccogliere testimonianze per i suoi studi, conosce Karen, la madre di un bambino che rifiuta di parlare. Ne nasce una relazione insolita e perversa, fatta di muti incontri clandestini in cui la donna si sottomette passivamente all’amante e di formali appuntamenti per parlare del figlio durante i quali i due fingono che tra loro non stia accadendo niente. Fino a quando un violento incidente allontana per sempre Luke da quella casa.
Ma quello che Luke ha sempre voluto fin dall’inizio è riprodurre l’esperimento del mogul Akbar. Un pomeriggio, in biblioteca, conosce Lillian, giovane senzatetto muta in balìa di uno sfruttatore alcolizzato che la picchia. Dopo averla salvata dall’uomo, la prende a vivere con sé. Luke vede nel mutismo della ragazza una conferma della strada da seguire e, quando Lillian rimane incinta di due gemelli, capisce che quella è l’occasione che aspettava.
In una prosa sinuosa e melodica che è quasi un canto, John Burnside ci offre una storia sconcertante, che lascia letteralmente senza parole.
"Uno dei debutti più belli e inquietanti da tempo."
- The Guardian -
Autore
John Burnside è nato nel 1955 e vive in Scozia.
Ha pubblicato sei raccolte di poesie, la più recente delle quali, A normal skin, ha ricevuto numerosi premi. Selezionato come uno dei "Poeti della nuova generazione" nel 1994, esordisce nella prosa con questo romanzo.
Recensioni
lankelot.eu
28 Novembre 2007
La ricerca dell’essenza: il locus dell’anima. L’indagine sulla coincidenza tra linguaggio e anima: la reminiscenza delle letterarie segregazioni per osservare la rivelazione spontanea del linguaggio divino. La disperazione del silenzio, l’ossessione del senso. Tutto questo sembra essere estraneo al noir: non quando il noir è l’opera prima, in narrativa, d’un poeta, d’un poeta laureato, John Burnside.
Questo libro trasfigura e sintetizza la ricerca d’ogni poeta consapevole: quella della natura del linguaggio, quella della coincidenza tra linguaggio e realtà, quella dell’epifania del suono primo. L’intelligenza letteraria di Burnside è stata capace di stabilire tutta una serie di convergenze con stilemi e dettami d’un genere, il noir, pronto a interiorizzare le psicosi e le manie d’un individuo deragliato e dissociato; stupisce e meraviglia, in ogni caso, la stratificazione del palinsesto di questa scrittura.
Destinata a soddisfare sia chi vuole inabissarsi nell’anima d’un assassino, sia chi vuole attraversare l’anima d’un poeta: Luke, il protagonista del romanzo, è inevitabilmente (e non credo involontariamente) tutto questo. È un filosofo assassino, è un omicida di creature di carta e di carne: è l’artista d’un fallimento inevitabile, quello della ricerca della verità, e non ha più equilibrio. Uccide figli e compagne come se cancellasse versi d’un poema sbagliato, come fossero nient’altro che congetture o sperimentazioni. Sono omicidi realistici come la collazione di due manoscritti.
Il manoscritto più antico è illeggibile proprio nei momenti fondamentali. L’altro si direbbe un apocrifo. Il filologo non sa risolversi: crux desperationis. Questa ricerca è un cimitero, croci su croci interrotte da un canto che non è forse umano, ma non è nemmeno divino: è forse animalesco. La risposta l’ha cercata invano Psammetico, nelle Storie di Erodoto: nel libro secondo (e qui a p. 34 e ss.), leggiamo di come avesse affidato due bambini neonati a un pastore, perché crescessero all’ombra d’ogni parola umana, nascosti in un gregge. Desiderava sapere quale linguaggio avrebbero adottato. Due anni dopo, pronunciavano una prima parola in frigio: "becos", pane. Ma è una leggenda, s’affretta a dire il narratore.
Come quella di Giacomo IV e del bambino che parlava ebraico. Niente vale la semplice bellezza della storia di Akbar, l’imperatore analfabeta che collezionava manoscritti. Quella era la storia che gli raccontava sua madre, la storia della casa del silenzio.
Un palazzo popolato da servitori muti, destinati ad accudire quei neonati che avrebbero testimoniato, imparando (per così dire) dal silenzio, quale fosse la lingua divina, quella che vive in tutte le anime. "Nessuno sa per quanto tempo quella casa sia poi rimasta in piedi, o cosa ne sia stato dei bambini che vi erano imprigionati con i loro muti custodi" – ché anche questa storia è poco più che un aneddoto.
Akbar non credeva che il linguaggio fosse equivalente all’anima, diversamente dai suoi saggi. Quella casa restò muta: "Gang Mahal", la Casa del Silenzio. Una favola nera e diabolica. Luke vuole andare oltre la leggenda e oltre l’aneddoto. Sta indagando, come Akbar e come Psammetico, il segreto del silenzio: convinto nasconda l’essenza, riveli l’arcano dell’origine della specie. "Che poi era quello che mi aveva sempre detto la mamma: una creatura senza linguaggio è una creatura senz’anima. Per conoscere l’anima, quindi, dovevo conoscere il linguaggio.
Sembrava così ovvio che ero sorpreso di non averci pensato prima. Ora sapevo qual era la mia vera vocazione. Se volevo dissezionare l’anima, dovevo adottare sistemi nuovi, acquistare nuove abilità". Cercando il momento esatto della morte, aveva dissezionato animali – seguendo e perfezionando un antico insegnamento di quel suo materno idolo che voleva spiegargli la morte mostrandogli le carcasse degli animali, nel bosco. Il linguaggio ha un potere infinito, Luke non riesce a pensare ad altro.
Vuole dominare questo potere, scoprendone l’innesco. "Viviamo in un mondo di parole, le cose esistono grazie al linguaggio, e il linguaggio può cambiare le cose o mantenerle fisse dove sono": è un poeta, questo assassino, ha la malattia del poeta; la ricerca del senso, della verità, della parola prima. Magnifico. E totalmente letterario. Restiamo, quindi, solo in parte interdetti di fronte al suo complesso e maniacale rapporto con la madre, cantastorie e idolo del narratore. Certe esasperazioni – nudità esibita in punto di morte, sciagurato pomeriggio d’adolescenza passato per profumi e balocchi materni, freddezza nei confronti della figura paterna, distaccata ("invisibile") e fragile, accenno a violenza sessuale in tenera età – scivolano via quasi fossero pleonastiche. L’essenza è quella ricerca, il resto sembra essere una forma di rispetto nei confronti d’un pattern. Altrimenti: il freddo furore omicida nasce – se vogliamo stabilirne un’origine – quando il ricercatore s’accorge che il linguaggio può fallire: che quindi l’ordine non esiste e che il caos è una destinazione plausibile. Impossibile che niente abbia senso e che l’origine non esista: impossibile che questo mio linguaggio non discenda dalla mia anima, e che la mia anima non discenda da un dio, grida il poeta. Senza che nessuno risponda: niente risposta, risposta sola il silenzio. Quel silenzio ammazza.
Il nostro ossesso rifiuta distinzioni tra libero arbitrio e destino, sentiti come "falsi opposti" e "illusioni consolatorie": "Si sceglie quello che si sceglie e non può essere altrimenti: la scelta è destino (…). Parlare di libertà o di destino è insensato perché sottintende che, oltre a voi, qualcos’altro governi la vostra vita e ne sia l’essenza: identità, manufatto dell’anima". E anima: manufatto di? Silenzio. Nel romanzo incontrerete – al di là del racconto dell’infanzia e dell’adolescenza del narratore, caratterizzate da tenace idolatria materna, si sarà inteso – due donne, vittime della sua pazzia. La prima, Karen, è madre di un piccolo che rifiuta di comunicare a parole; ne deriverà una relazione morbosa tra lei e Luke, con inevitabili violenze al piccolo, muto ma non insensibile nei confronti del disastro incombente per l’avvento dell’ossesso nella sua vita. La seconda, Lillian, muta e già oggetto delle violenze di un compagno brutale, si ritroverà nelle grinfie di Luke – splendido nuovo esemplare per le sue ricerche – e gli donerà due gemelli, che scopriamo assassinati già nelle primissime battute del libro.
I due, simbolicamente battezzati come manoscritti, A e B, cresciuti secondo la lezione di Akbar, svilupperanno una sorta di canto che sgomenterà il narratore; l’epilogo di questo suo esperimento è prevedibile, il crescendo della follia meno. Al termine, si rimane discretamente angosciati: come di fronte a una pagina di Wittgenstein sul linguaggio, o come di fronte ai versi d’un mistico sull’origine del suo canto.
S’avanza nella ricerca senza fine, ma non senza un fine. La meta, infine, ti benedice o t’oltraggia col suo silenzio.
Gianfranco Franchi
nokoss.net
17 Maggio 2008
"Uno dei debutti più belli e inquietanti": è l’incisiva definizione che dà The Guardian sul primo romanzo di questo autore e poeta scozzese. Innegabilmente vero; risponderei proprio "inquietante" a chi mi chiedesse di descrivere questo libro in una sola parola.
La prima frase recita così: "Nessuno potrà mai dire che uccidere i gemelli sia stata una mia scelta, così come non era stata una mia scelta metterli al mondo". Voi che dite? È complicato spiegare quali sono i meccanismi che innescandosi portano la mente a infilarsi nelle storie torbide, inseguendone il filo rosso che chiarisce l’effetto partendo dalla causa, dall’azione, permettendo di risalire al pensiero che ne è base ed origine: tutti e sempre sono attratti dalle storie di streghe, orchi e vampiri famelici che si portano sul groppone quelle terrificanti turbe psichico-emotive che alienano l’uomo da sé e dalla sua presunta natura bonaria e sociale.
E più un killer è serial, più un mostro è mostruoso, più si racconta e si vuol raccontare. Burnside ha fatto leva su questa morbosità per La casa del silenzio, il cui protagonista è Luke, voce del narratore che parla in prima persona. Insanamente pazzo di sua madre, verso cui esprime un’idolatria fuori dal comune, ne è emotivamente succube e dipendente: è un uomo solitario, razionale. Malato di logica e calcolo, gioca a impersonare Dio coi i suoi simili: al centro del mondo che Burnside gli ha scritto intorno. Lo ha popolato di pedine piccole e deboli, pronte a piegarsi al suo freddo volere e al suo macchinoso quanto perverso piano. L’effetto ammaliante del linguaggio, tramite imperioso tra coscienza e realtà: questa è la sua mania, la sua fissazione, la sua compagnia.
Fin da bambino, fin dal giorno in cui chiamò rosa quel fiore profumato, pallido e carnoso che la mamma coltivava in giardino. Cos’è la parola poi? Serve a ordinare il mondo e le cose, serve a dare un nome alle emozioni, serve per classificare, creare, segnare. Ecco perché, dice Burnside, il passato appare perfetto, un tempo di proporzione e ordine: per l’uomo, a differenza che per gli animali, il passato non esiste che nelle parole. Su quella mente così sensibile, forte è la presa della storia persiana che la mamma amava raccontare, quella di Akbar il mogul, imperatore che fece costruire "la casa del silenzio", un palazzo dove rinchiudere bambini non ancora parlanti insieme a balie e servitori muti. Avrebbero parlato? E se sì, come? Suoni, versi, parole? In quale lingua? Avvinto nell’appiccicosa storia Luke se la porta dietro continuando a studiare il linguaggio e la sua fenomenologia. Il mogul Akbar però è lì, dentro di lui.
È chiaro: al momento propizio – l’improvviso contatto con Lilian, ragazza muta (guarda caso) in attesa di due gemelli – l’esperimento può iniziare. A e B – i nomi che lo psicotico dà ai bambini – cresceranno soli in una cantina, sviluppando una comunicazione tra loro sotto forma di canto. I loro canti sono logoranti, sono ossessioni inquietanti che scuotono forte i nervi e portano dritti verso l’esasperazione. La casa del silenzio intriga, e, a parte una lieve prolissità nei lunghi brani dedicati alla gestione del rapporto tra Luke & sua madre, Burnside è una bella sorpresa, con uno stile chiaro ma non asciutto, che fa apparire piani e lisci i ragionamenti arrovellanti del paranoico Luke. Un ben raccontato noir, che sgomenta fino in fondo. Inquietante.
Mariagrazia Liotta
Data di inserimento in catalogo: 15.04.2013.