Autore: Steve Earle
Steve Earle, musicista e songwriter che da ormai vent’anni rappresenta una voce critica nel panorama musicale del suo Paese, non lascerà delusi i suoi fan neppure questa volta. Perché l’artista texano d’adozione è riuscito a trasportare in questa raccolta di racconti tutto il talento, la passione, la rabbia che caratterizzano le sue canzoni. Ma Earle è andato anche oltre, dimostrandosi un autentico scrittore, dotato di una prosa matura, acuta, e fondamentalmente sincera. "Quando si metteva a cantare tu gli credevi," dice un personaggio del libro a proposito delle esibizioni di una giovane stella del country. Ecco, lo stesso si potrebbe dire di Earle e dell’America da lui raccontata.
Nelle sue storie si incrociano battaglie di una vita, sconfitte personali, ferite profonde impresse sul corpo di un Paese. L’America della guerra in Vietnam e delle irrorazioni con l’Agente Arancio; l’America della frontiera con il Messico e dei coyotes che fanno la spola con il loro carico di immigrati clandestini trattati peggio della merce; l’America che convoglia tutta la sua rabbia nel rituale brutalmente asettico della pena di morte.
Ma è anche un’America che Earle non riesce a smettere di amare, nonostante tutto. E il suo amore trasuda pagina dopo pagina, in un’oscillazione tra i toni favolosi e picareschi del primo Steinbeck e le atmosfere drammaticamente degradate di Bukowski.
Gli eterni viaggi in macchina lungo le highways, il lavoro spezzaschiena nei cantieri per pochi dollari, le notti degli amanti accampati nel deserto, ma anche l’estetica decadente della vita di una rockstar distrutta dal crack (in un racconto dai risvolti chiaramente autobiografici), o del veterano malato che decide di tornare a Saigon per morire. Le rose della colpa è la riuscita celebrazione di esseri umani alla deriva, una lunga canzone dedicata agli emarginati che di questo mondo si sono ritrovati ad abitare le terre di confine.
"Se fossi una rockstar,
vorrei essere Steve Earle."
- Michael Moore -
Autore
Steve Earle tra i maggiori esponenti del folk-rock americano,è nato in Virginia nel 1955. Dopo vari problemi di droga, culminati nell'arresto agli inizi degli anni Novanta, Earle torna alla ribalta nel 1955 con l'album Train a' Comin'.
Nella sua musica ha sempre espresso una critica decisa al sistema americano, e si è impegnato in prima persona nwelle battaglie politiche contro la guerra e contro la pena di morte. Nel 202 iul suo lavoro Jerusalem ha fatto discutere - arrivando persino ad essere boicottato negli Stati Uniti - con la canzone John Walker's Blues, dedicata all'americano passato dalla parte dei talebani in Afghanistan. Il suo ultimo disco, The Revolution Starts... now!, ha vinto il Grammy Award 2005 per il miglior album di folk contemporaneo. Le rose della colpa è il suo primo libro.
Recensioni
Buscadero
ottobre 2005
Cambiano gli strumenti, dal rock’n’roll alla short story, ma le prospettive di Steve Earle rimangono quelle, solidissime, di un ribelle con molte cause per cui battersi. È un outsider che canta e scrive per gli outsider perché, come spiega con una certa eloquenza, in "La Valigia Rossa": "Quasi tutti viviamo vite tra parentesi, esistenze comodamente racchiuse entro i confini di un’era delineata nettamente.
Di tanto in tanto, tuttavia, per pochi sfortunati tra noi, tutto quanto cambia mentre siamo ancora in servizio. Un pezzo della piramide che con cura abbiamo costruito generazione dopo generazione viene estirpato dalla base senza troppi complimenti, e nulla è mai più come prima, si fa tabula rasa e si allestisce il palco per qualcosa di totalmente inatteso". È l’identikit fondamentale dei personaggi di tutti i racconti raccolti in Le rose della colpa: può cambiare la fisionomia, il paesaggio attorno o qualche dettaglio, ma i protagonisti hanno pescato la carta sbagliata nel mazzo, hanno scelto il momento peggiore per fermarsi sul bordo di una strada, si sono ritrovati nella parte sbagliata della città.
E’ ovvio che il lieto fine è escluso a priori: all’appello manca solo Billy Austin (l’omonima canzone, su "The hard way", era già una short story compiuta), però la galleria di loser che Steve Earle mette insieme in Le rose della colpa colpisce per l’amara lucidità con cui le racconta. Non è uno scrittore particolarmente evoluto (sappiamo benissimo che il suo lavoro è un altro), però è sanguigno, diretto e sincero quanto basta anche quando si tratta di affrontare argomenti che hanno più di un risvolto autobiografico.
Quando tratteggia il fantasma della tossicodipendenza in "Una sorta di elogio funebre" ("Harold Mills è morto la scorsa notte, solo nella sua stanza da 75 dollari la settimana al Drake Motel, e io sono probabilmente l’unico coglione di Murfreesboro Road che ne sente la mancanza. Ma è anche vero che sono l’unico a sapere che se n’é andato"), Steve Earle sembra guardare nel buio dei suoi anni più cupi e lo fa senza moralismi, senza ipocrisie e fa ammettere candidamente al protagonista della short story che nemmeno andrà al funerale dell’amico che ha visto portare via sotto un lenzuolo perché "Nessuno di noi, le creature che hanno conosciuto Harold qui sulla statale, ci andrà, perché i funerali, come si suol dire, sono fatti per i vivi e noi siamo già morti. Stiamo solo aspettando il nostro turno". Crudo, realistico e durissimo, anche quando affronta l’episodio, a sfondo razziale, di "Taneytown" (che è la short story da cui è nata l’omonima canzone di El Corazon): un ragazzo di colore scende giù in città, si trova nei guai e per difendersi uccide un coetaneo bianco. Riesce a dileguarsi e a tornare nella sua valle, mentre gli abitanti di Taneytown trovano un colpevole (nero, ovviamente) e lo linciano al posto suo. Non manca un riferimento esplicito al rock’n’roll e al music business di Nashville: in "Billy The Kid", Steve Earle narra la storia del più straordinario disco che sia mai uscito dagli studi della città. Billy The Kid, questo il nome del songwriter che l’aveva inciso, stava vivendo il suo sogno fino a quando il destino non ha cambiato radicalmente la sua strada.
Il finale ha due tempi: il primo, s’intuisce subito, è tragico; il secondo è agrodolce e molto, molto pertinente a ciò che il music business è diventato oggi. Scopriteli da soli e seguite il consiglio di Steve Earle quando vi farà da anfitrione a Nashville: "Fatevi un giro nel Music Row. Se avete la patente, abbandonatevi a quelle stradine a senso unico, e vedrete che non farete altro che girare in tondo. Vedrete ciò che si vedrà dal vostro parabrezza: vetro e mattoni, asfalto e cemento. Se siete a piedi potrete avvicinarvi al marciapiede, a quel luogo dove la musica è ed è sempre stata. Se camminate lentamente, potreste addirittura imbattervi in un brutto bar imbiancato e col tetto piatto quasi invisibile all’ombra dei giganti che gli sono spuntati da entrambi i lati. Fermatevi a bere una birra. Datevi un’occhiata intorno. Non è niente di che, ne convengo.
Però concedetegli lo stesso una chance. Ascoltate il jukebox. Potreste sentire gli echi di ciò che questa città è stata un tempo". Le rose della colpa (di cui segnaliamo anche "Il testimone", "La danza del giaguaro" e "La rimpatriata") non fanno altro che espandere quello che già avevamo intuito ascoltando Steve Earle: con ogni probabilità non sarà mai un grande scrittore, ma è e resta, su disco e su libro, uno splendido storyteller. Forse è anche meglio così perché, come confessa platealmente in "L’Internazionale", "Mai innamorarsi di uno scrittore, chéri, specie se di talento. Gli scrittori si vantano delle loro imprese amorose, in pubblico come in privato. Vai a letto con uno di loro, e tutti i suoi amici verranno a fare la fila alle sue spalle. Se poi ti innamori di lui, come prima cosa ti spezzerà il cuore, e quindi trasformerà il tuo dolore in inchiostro per macchina da scrivere. A quel punto comincerai a vivere nel terrore del giorno in cui verrà pubblicato. Conviene di più amare un pessimo scrittore, che si porterà i tuoi segreti nella tomba. O, meglio ancora, un rivoluzionario. I rivoluzionari sì che sanno mantenere i segreti. Devono. Per loro è questione di vita o di morte".
La differenza, per Steve Earle, è tutta qua: le sue canzoni, le sue short stories (che vivono in simbiosi e si trasformano le une nelle altre per osmosi) sono state più di una volta la sua ultima chance. Anche solo per questo, Le rose della colpa merita un posto speciale accanto ai suoi dischi e vicino ai libri di quegli scrittori che sanno che la storia è tutto, ma la vita di più.
Marco Denti
Diario
Gennaio 2006
Le rose di Steve
L’America dolente, L’ America ribelle Steve Earle nasce cinquant’anni fa a Fort Monroe "un buco sperduto nel culo della Virginia".
Epicentro di quella cosiddetta "Bible-belt" dei territori del Sud e del Midwest: la roccaforte reazionaria e bigotta della santa alleanza interna fra integralisti religiosi ed estrema destra, l’asse della politica repubblicana e presidenziale USA. Earle suona country e rock roots viscerale. Nei primi anni settanta emigra in Texas dove la sua fama di Crooner dei Diseredati si amplifica nello star system nazionale.
Poi, in omaggio all’iconografia del country, si stabilisce a Nashville, Tennessee: suona le mille storie dell’Altra America e nel 1975 finisce anche in "Nashville" di Altman. Canta, in opposizione con lo sciovinismo tipico del country rock, dell’epopea del redneck (l’uomo dal collo arrossato per il sole e la fatica); dei nuovi cracker bianchi e neri orfani di un moderno New Deal (il sottoproletariato senza futuro raccontato già dallo Steinbeck di Furore e La Battaglia), con il cervello bruciato dal crack e reietti dall’emarginazione sociale; degli hobos (picari idealisti, argonauti coast to coast sui treni-merci, che animano le ballate di Woody Guthrie).
Raccatta sul pentagramma le figure emblematiche della società americana extraurbana, alle prese con la ferita mai rimarginata del Vietnam e con l’estrema destra. Così Earle, uno Springsteen meno bacchettone, diventa il megafono delle contraddizioni di una generazione antagonista, anarcoide, disincantata, elettoralmente consapevole e demo-oriented, che al mito kennediano della Nuova Frontiera ha sostituito una dimensione etica ed ideologica, impegnata contro la guerra e le macro anomalie del sistema economico-giudiziario yankee e critica dal basso il Nuovo Ordine Mondiale. Nel frattempo inizia a farsi di coca, eroina e crack. Finisce in galera al crepuscolo dell’era reaganiana.
Uscito dal gabbio nell’interregno clintoniano, ricomincia a scrivere canzoni incidendo più di una mezza dozzina di dischi, sempre fiancheggiato dai fidi The Dukes, spaziando dal country e bluegrass al folk rock al reggae. Cita Dylan ed Elvis, Johnny Cash, Gram Parsons e la Tex-Mex. Coniuga le visioni dei Byrds con la disperazione malata dei Nirvana, abbatte mode e nicchie. Dennis Hopper gli chiede qualche ballata per il suo American Dreamer. Compone le soundtrack de L’uomo che sussurrava ai cavalli e Dead Man Walking.
Con l’avvento della Dinastia Bush descrive come un menestrello elettrico la metafora di un’America odiata e amata: l’America guerrafondaia, quella della spazzatura morale della provincia e dei cimiteri lisergici delle bidonville e dei ghetti costruiti dai sindaci WASP e dai neonazisti dal colletto bianco sulle fogne delle metropoli. Mette un microfono in bocca a migliaia di disoccupati neri, bianchi e ispanici. Denuncia e smaschera L’America che viola gli insegnamenti evangelici tollerando la pena di morte e l’alto tasso di omicidi, sorda agli aiuti umanitari e orba nella politica fiscale che penalizza i più poveri. Chiede a Bush di dire la verità sulle elezioni farsa del 1999 e sull’11 settembre in Tell Us The Truth.
Scrive un blues per John Walker, l’americano passato ai talebani in Afghanistan, in Jerusalem del 2002 e viene boicottato dai media e dal music business. Ma con The Revolution Starts...Now! nel 2005 abbatte il silenzio mediatico, vincendo il Grammy Awards- l’oscar della musica popolare- come miglior album di folk rock contemporaneo. Finalmente Earle si avvicina alla letteratura e la sua indole di (de)scrittore si trasforma in una raccolta di undici racconti, Le Rose della Colpa (in Italia per MeridianoZero), in cui emerge la straordinaria padronanza narrativa e lirica del songwriter. Una sorta di etnografia dello sfruttamento- per la capacità storico-antropologica di descrivere le periferie dell’Impero a livello locale e neoglobale – ma anche la lunga canzone di uno junkie sopravvissuto alla peste di L.A..
Un rauco cantastorie a la Waits madido del crudo immaginario simbolista di Steinbeck e una concreta capacità letteraria che chiama in causa Chandler, Kerouac e Bukowski. C’è il Vietnam irrorato delle piaghe dell’Agente Orange e un reduce che va a morire in un albergo di Saigon. Un chopper che attraversa la frontiera di peyote con il Messico e i suoi coyotes che trattano come merci avariate clandestini che danzano con i giaguari. Teneri ritardati bianchi e neri di paese alle prese con il Potere e sfortunati Billy The Kid del Country.
Orazioni funebri per pusher e epitaffi di amori lisergici. Un idrovolante carico di coca e la memoria delle rivoluzioni fallite nel Secolo Breve della canuta Mademoiselle Anna La Rossa inebriata d’assenzio. Storie narrate come se l’occhio politico di Michael Moore fosse contaminato dalla lezione di Beckett, Miller ed Hemingway ed elevate al rango di letteratura da frammenti di maleodorante romanticismo tossicodipendente.
Domenico Mungo
Liberazione
11 Novembre 2005
Steve Earle, undici storie disperate Finalmente tradotto anche in Italia il primo libro della stella del folk americano: Le rose della colpa.
Un insieme di racconti (uno autobiografico) come sempre dalla parte dei perdenti L’urgenza. Non la fretta, quella no. Ma il bisogno di raccontare qualcosa e qualcuno subito, ora, prima che gli altri se ne scordino. Prima che passino oltre.
Perché a nessuno fa piacere pensare a quegli "sfondi", a quei protagonisti. Perché nell’America dove Bush ha vinto un’elezione, senza strascichi giudiziari stavolta, a nessuno va di pensare a quell’universo che vive sotto i cavalcavia delle autostrade, a quei perdenti. Senza più neanche la voglia di riscattarsi. L’urgenza, allora. La stessa delle sue canzoni. Come in Johnny Walker Blues, il brano che nessuno negli States ha potuto ascoltare alle radio. Censurato.
Perché racconta di come un semplice, tranquillo ragazzo americano, cresciuto a Mtv, possa trasformarsi in un talebano. Ora rinchiuso a Guantanamo. Lì, in quella canzone, l’urgenza, Steve Earle la rivela con le improvvise impennate di chitarra. E con la sezione ritmica che incalza, sempre di più, fino a diventare ossessiva. Al punto da coprire le parole. Come se avesse bisogno di chiudere subito la frase musicale perché gli "altri" la possano finalmente ascoltare, la possano ricordare. Se ne possano accorgere.
Ecco, Steve Earle – il più famoso autore rock-folk americano, l’autore più trasgressivo di ballate, s’è fatto sei mesi di carcere; il più rivoluzionario, in un’intervista a Liberazione s’è definito "ancora marxista" – ecco, Steve Earle nei suoi racconti mette anche tanto delle sue canzoni. Il suo libro, il suo primo libro - finalmente tradotto anche in Italia – Le rose della colpa (ed. Meridiano Zero), non è comunque solo il prolungamento della sua musica. Certo, l’impostazione, la filosofia è quella: un outsider che racconta, che dà voce agli outsider.
Ma quello che in Copperhead Road, Justice in Ontario, Revolution starts… now è solo abbozzato, quegli affreschi a pennellate nervose, irregolari qui, nei brevi racconti del libro diventano a tinte più varie. Forse, anche un po’ più sfumate. Non fosse altro perché Steve Earle, nella prima, breve storia che dà il titolo al libro, racconta sé stesso. Del suo rapporto con le droghe pesanti. Nella biografia, nell’autobiografia, di una stella del folk che sceglie di distruggersi con l’eroina, col crack. Esattamente come ha fatto lui, prima di quella maledetta domenica a Nashville del ’94, quando uno sceriffo lo fermò, gli perquisì la macchina, fino a che non saltò fuori una bustina di eroina. E con quello che aveva fatto due anni prima, a Dallas, quando aggredì un altro agente che da tre ore gli stava perquisendo la stanza d’albergo, e con quello che cantava, con le sue denunce sul razzismo nel Texas, per lui si aprirono le porte del carcere.
Carcere dal quale è uscito non solo "pulito" fisicamente ma forse più motivato. Visto che gli ultimi suoi album, così diversi stilisticamente – dal blues all’energia rock degli esordi – hanno un unico segno: sono capolavori e sono tutti un manifesto politico. Di chi non si è rassegnato all’era Bush, alla guerra, alla povertà. Alle discriminazioni. Ma questo non c’è nel racconto.
Lì c’è solo, detto in un’unica battuta – di nuovo l’urgenza – la constatazione che quello che si è perso in quegli anni – in affetti, in relazioni, in "voglia di cambiare il mondo" – non te lo ridarà più nessuno. Semplicemente non c’è più. Steve Earle si racconta così. E nelle altre dieci storie racconta di chi – per sfortuna o per scelta, fa lo stesso – s’è trovato a vivere dalla parte sbagliata di Los Angeles, o ha avuto la "pessima idea" di nascere nella valle dei neri a Taneytown. O che ha avuto semplicemente la malasorte di trovarsi in una strada senza uscita, nei quartieri sotto gli svincoli autostradali. Racconta degli ultimi, di quei messicani che dopo tredici ore in un cantiere in Florida non sanno più neanche amare. O forse, non sanno amare come gli americani, non sanno amare una donna incontrata al bar. Ma sono capaci di amare la sedia di quel bar o la foto dei figli attaccata alla parete della loro stamberga. Steve Earle è dalla loro parte. Ma proprio come nelle sue canzoni, non lo dichiara. Sta dalla loro parte, come chi sa tutto di loro, anche se non può entrare nella loro testa. In questo forse – ma solo in questo – ancora un autore minimalista.
Sta con loro, anche se sono senza sogni, senza speranza. Senza progetti. Personaggi sui quali non si potrà fare nessun film. Storie che non sanno neanche cosa sia un lieto fine. Neanche quando sembra di esserci ad un passo, come quel cantautore da pub – in "Billy The Kid" – che sembrava aver pescato la carta giusta dal mazzo. Niente, neanche per lui. Sono storie però da raccontare subito. Così come vengono. Anche perché Earle sospetta della forma troppo curata. Lo fa dire ad una anziana donna, in un bar. Rivolta ad un americano, importatore di qualcosa: "Mai innamorarsi di uno scrittore, specie se di talento". Loro, gli scrittori bravi e famosi, si vantano delle loro imprese amorose in pubblico come in privato. Se poi ti innamori di uno di loro, come prima cosa ti spezzerà il cuore e poi trasformerà il tuo dolore in inchiostro per macchina da scrivere.
No, molto meglio amare un pessimo scrittore. "Si porterà i tuoi segreti nella tomba." Di più: meglio amare un pessimo scrittore e un rivoluzionario. "Loro sì, che sanno mantenere i segreti." Sono storie da raccontare così, allora, di getto. Storie che non hanno la pretesa di insegnare nulla, non prospettano nulla. Sono solo la somma di undici disperazioni. Storie che non arrivano da nessuna parte. Se non alla voglia di cambiare di Steve Earle. Alla sua urgenza di cambiare l’America.
Stefano Bocconetti
il manifesto
19 Novembre 2005
Blues, politica e eroina nei racconti di Steve Earle Del musicista statunitense è stata pubblicata da Meridiano Zero la raccolta Le rose della colpa
Forse non a caso Steve Earle ha intitolato Le rose della colpala sua raccolta di racconti appena pubblicata da Meridiano Zero (pp. 220, euro 13): "rose della colpa" donate dal musicista ai suoi fan per farsi perdonare di aver presentato non un nuovo disco, ma "solo" un libro, che rivela però doti inattese di scrittura. Nato nel `55 e cresciuto in Texas, Earle si è fatto le ossa negli anni `70 a Nashville lavorando di giorno e esibendosi la sera con la band di Guy Clark. Ma il vero debutto arriva negli anni `80, al suo ritorno in Texas. Alfiere del new country (per cui gli è stata cucita addosso una rivalità musicale con un’altra star del "movimento", Dwight Yakam), in realtà Earle fonde fin dal primo album il suo country-blues con il fuoco dell’energia rock e di testi molto politicizzati: una delle sue più belle canzoni, The Devil’s Right Hand (in Copperhead Road del 1988) è per esempio contro la libera vendita di armi negli Stati Uniti.
Accanito oppositore della pena di morte, all’epoca della guerra in Afghanistan contro Bin Laden il musicista inserisce nel suo Jerusalem (2002) la canzone John Walker’s Blues, ovvero il blues del ragazzo americano trovato a combattere a fianco dei talebani, immaginando che questa scelta derivi dal vuoto pneumatico di valori creato dal consumismo in America. Per questa canzone Earle è stato duramente contestato dalla destra americana (e pure da quella italiana, come si può vedere dalla recensione uscita sul Foglio).
Ma quando parla di lavoratori, di carceri, di droga, Earle si riferisce in primo luogo alla sua stessa esperienza. Travolto negli anni `90 da problemi personali e dall’insuccesso di The Hard Way, il musicista viene arrestato per consumo di droga e condannato a un anno di prigione che sconta lavorando in un centro di riabilitazione. Superato quel periodo, Earle è oggi l’unica vera star del panorama rock-country-blues internazionale a permettersi non solo di schierarsi contro Bush, ma di definirsi addirittura un marxista rivoluzionario: il suo ultimo album, intitolato appunto The Revolution Starts... Now (2004), contiene canzoni come Rich Man’s War o Condi, Condi (sul consigliere per la sicurezza Rice), caratterizzate da testi violenti contro l’Fbi, la Cia e l’attuale politica americana.
E anche nei racconti di Le rose della colpa, le storie di Earle parlano di rockers drogati, della rapacità del music business, di immigrati clandestini che vengono lasciati morire all’interno di cassoni da coloro che dovrebbero portarli nella terra promessa, di corrieri della droga con coscienza e codice morale, di homeless, di rivoluzionari a disagio nel mondo contemporaneo. Ma il racconto forse più efficace è "Il testimone", dove un potente avvocato assiste all’esecuzione in una prigione dell’assassino della propria moglie. Con toni simili a quelli di un racconto giallo, Earle ribalta efficacemente la situazione e mostra come la pena di morte non sia che uno strumento di pressione economico e politico per ribadire la superiorità della classe dominante. Nel racconto più scopertamente autobiografico, che apre la raccolta e le dà il titolo, il musicista descrive una star country-rock rovinata dalla dipendenza. L’eroina e il crack prendono il posto dell’ispirazione, e invece delle canzoni ormai non ha da offrire altro alla moglie che le "rose della colpa": "Avete presente, no? Quelle rose confezionate singolarmente che si vendono accanto alla cassa dei negozi.
Avvolte nel cellophane, con un’ampollina di plastica piena d’acqua alla base dello stelo. Le comprano gli uomini per le persone care quando rientrano a casa troppo tardi o si dimenticano anniversari e compleanni".
Ma la moglie, pur ancora innamorata di lui, lo lascerà e proprio questa sofferenza rappresenterà, per il cantante, l’inizio del riscatto. Se con i suoi testi musicali Earle aveva già dimostrato di saper scrivere delle storie, ora, svincolato dai limiti temporali di una canzone, dimostra di essere in grado di dare uno sviluppo a quei racconti, di saper sostituire alla musica un intreccio di parole.
Francesco Mazzetta
Pulp
Novembre/Dicembre 2005
Gli undici racconti contenuti ne Le rose della colpa non dovrebbero sorprendere gli amanti di Steve Earle. Non potendo iscrivermi tra costoro, pur rispettando l’onestà di un artista non di rado impegnato in versanti collaterali (e spesso contadittori) dello show-biz, devo confessare che la lettura dei suoi racconti brevi potrebbe funzionare da stimolo per una rivalutazione della sua produzione musicale.
Uomo dalla biografia spesso segnata dalle cicatrici di una vita ai margini, riesce a trasporre in narrazione tutti gli stilemi che hanno caratterizzato i testi delle sue canzoni. Ma non solo. Le sue storie trasmettono, in modo forse più incisivo, la tensione interiore che ha spinto Earle a prendere delle nette e decise prese di posizione politiche, che lo allontanano di molto dallo stereotipo del redneck, tutto sciovinismo e bandiera confederata.
Le sue posizioni contro la pena di morte trovano compimento nella sua narrazione ed offrono il ritratto di una provincia americana tutt’altro che addormentata e per nulla succube, anche se inevitabilmente condannata da una trasformazione non voluta e più spesso subita.
Private del "country flavor", che personalmente non riesco ad amare, le sue storie guadagnano in incisività specie nei passaggi più surreali. Storie di droga ed amorazzi consunti consumati su divani sdruciti, sullo sfondo di una Nashville burina e maneggiona. Storie di anime stanche, spesso irrobustite da pennellate autobiografiche che spesso trovano le loro radici negli anni ’70.
Anni di speranze allora solo contaminate e non ancora inevitabilmente tradite, ben raffigurate dalle vicende de "l’americano", personaggio che attraversa alcuni racconti e che, meglio di ogni altro, trasmette l’immagine di un’America contaminata e disperata. Un personaggio al quale saremmo grati, "se ci volesse abbastanza bene da non venire a trovarci troppo spesso".
Corrado Pipan
il Quotidiano
21 Gennaio 2006
L’America secondo Steve Earle
Il libro di racconti del cantautore di "Jerusalem" Le rose della colpa sono "quelle confezionate singolarmente che si vendono accanto alla cassa dei negozi. Avvolte nel cellophane, con un’ampollina di plastica piena d’acqua allo base dello stelo. Le comprano gli uomini per le persone care quando rientrano a casa troppo tardi o si dimenticano anniversari e compleanni." Hanno tutti qualcosa da farsi perdonare, i personaggi di Steve Earle, cantautore americano che si è seduto dietro una scrivania per licenziare la raccolta di racconti Le rose della colpa. Amore e degrado, viaggi nel deserto, droga a fiumi, quartieracci, viaggi picareschi: è questo lo sfondo prevalente del mondo narrativo di Earle. Di eccessi legati alla di droga e alcol che Earle conosce da dentro, visto che nel 1994 arrivò a costituirsi per costringer se stesso a disintossicarsi.
Le rose della colpa è un mondo di pagine scritte che non dimentica la musica, professione prevalente del 50enne songwriter, texano d’adozione, sempre dalla parte dei diseredati e delle minoranze, impegnato su fronti come la pena di morte, la pace in Palestina e la campagna anti-Bush. I suoi racconti si popolano di impresari, ex rockstar, musicisti tossici, giovani stelle del country. Un viaggio al centro del cuore americano, tra provincia e metropoli, in cui l’autore di Christmas in Washington e Jerusalem racconta le vite tra parentesi dei suoi anti-eroi, molto spesso outsider ficcatisi nei vicoli ciechi dell’esistenza. Steve Earle racconta l’America con una scrittura sincera ed emotiva, elementare, "una sorta di immediatezza innata" (come uno dei personaggi della raccolta), con cui ci dispiega le mosse del destino che spezzano il cammino, in undici racconti di lunghezza variabile (da cinque a trenta pagine).
Steve Earle ha scritto un blues per John Walker, il talibano americano, il giovane yankee arruolatosi per "gli altri" proprio mentre negli States impazza un patriottismo esagitato e paranoico. È un amante delle storie, Earle, ama raccontarle, risalendo ai meandri delle scelte, addentrandosi nelle spirali che conducono i suoi protagonisti quasi sempre alla deriva. Sia che finiscano sotto il camion di un autista addormentato, come il giovane cantante-prodigio di Billy the Kid, sia che l’abbandono della moglie li induca finalmente a salvarsi dalla droga, come accade al personaggio del racconto che dà il titolo all’intero libro, una vecchia star in malora. Sia, ancora, che incontri l’amore e lo comprenda tardivamente, come accade nel brevissimo frammento finale Un cuore pacificato.
Con uno sguardo tendente al malinconico pessimismo, custodito in quello che forse è il racconto più riuscito, La valigia rossa. Un paesino della provincia americana, una "main street" qualsiasi, percorsa quotidianamente da William, che potremmo definire semplicisticamente "lo scemo del villaggio", ma che al contempo, con le sue abitudini fisse e rassicuranti, rappresenta l’identità cementata della cittadina. Un processo insensato e grottesco a cui sarà sottoposto William (si rifiuta di aprire una valigia rossa che trascina sempre con sé, una valigia che si rivelerà vuota), segnerà l’inizio della fine del paesino.
Sì, perché "niente dura per sempre. Nessun luogo. Nessun tempo. Nessuna abitudine. Nemmeno in un paesino. A noi piace pensare di lasciarci dietro il nostro tentativo collettivo di ottenere l’immortalità. Vogliamo credere che le nostre tradizioni dureranno, forse perché è la vita in sé a essere così sfuggente. Ma i cicli del tempo si esauriscono".
Gianluca Veltri
Rockstar
Marzo 2005
La Frase: Avete presente, no? Quell’ambiguo intervallo di tempo tra l’istante in cui vedi qualcuno e questo qualcuno vede te, durante il quale devi stabilire se sei felice di vederlo o meno.
La storia di Steve Earle cade in pagina, si camuffa nelle mille pelli di uomini alla deriva e trasporta lungo i lembi di confine, dove chi sbaglia vaga. C’è l’America letteraria di Steinbeck e Kerouac in questa sfilza di racconti lucidi e lineari, abitati da coyote, gringos narcotrafficanti, junkies, losers e da tutti i figli disconosciuti degli Stati Uniti, calciati all’angolo della vista per la vergogna.
Se l’America si ostina ad indossare la calza contenitrice per non mostrare i suoi naturali inestetismi, il cantautore folk, da sempre voce e penna critica, la sfila dall’interno e ne decomprime il senso di colpa. Leggendolo, prenderete a bordo balordi affascinanti ai quali perdonerete tutto.
Simona Orlando
Rumore
Dicembre 2005
Steve Earle, tra i maggiori esponenti del folk-rock mondiale, nasce cinquant’anni fa a Fort Monroe "un buco sperduto nel culo della Virginia", l’epicentro della cosiddetta "Bible-belt" del Sud e del Midwest, il serbatoio elettorale della Famiglia Bush.
Il Crooner dei Diseredati, uno Springsteen meno bacchettone e un Johnny Cash più rocker per capirsi, emblema di una generazione antagonista, postuma al mito kennediano della Nuova Frontiera, attiva contro la guerra, le anomalie del sistema yankee e il Nuovo Ordine Mondiale.
Boicottato dal silenzio dei media di regime per i suoi lavori dissidenti, dentro e fuori dal gabbio per droga, a cavallo fra gli ’80 e i ’90 compone colonne sonore per Hopper e Tim Robbins. Più di recente scrive il Blues per John Walker-l’americano talebano- e vince il Grammy con The Revolution Starts...Now! per il miglior disco folkrock contemporaneo. Le Rose della Colpa è il suo primo libro, una sciarada di 11 racconti che definirei "etnografia dello sfruttamento"- per come descrive le cause storico-antropologiche di talune realtà locali e globali.
Ma è anche un esordio in cui emerge la visionarietà narrativa e lirica del songwriter. La lunga canzone di uno junkie sopravvissuto alla peste di L.A. e al riassetto sociale. Ispirandosi a Woodie Guthrie chiama in causa Chandler, Kerouac e Bukowski. Un Tom Waits con il crudo immaginario simbolista di Steinbeck che narra del Vietnam irrorato dai veleni dell’Agente Orange, di un reduce che va a morire in un albergo di Saigon.
La frontiera di peyote con il Messico e i suoi coyotes: clandestini ammassati come merci avariate che danzano con i giaguari. Ritardati bianchi e neri di provincia vessati dallo Zio Tom e commoventi storie di Billy The Kid del Country. Orazioni funebri per pusher e epitaffi di amori lisergici.
Un idrovolante carico di coca e la memoria delle rivoluzioni fallite nel Secolo Breve raccontate dalla canuta Mademoiselle Anna La Rossa inebriata d’assenzio. Fotogrammi dell’Altra America narrati dall’occhio politico di Michael Moore contaminato dalla lezione di Beckett, Miller ed Hemingway ed elevati al rango di letteratura da frammenti di maleodorante romanticismo tossicodipendente.
Domenico Mungo
L’Unità
31 Ottobre 2005
I casi di musicisti che hanno scritto e pubblicato opere di narrativa sono sempre più numerosi. E se questo fenomeno può essere almeno in parte ricondotto alle pressioni esercitate dagli editori su probabili autori di best-seller, è vero che alcuni di loro sono realmente capaci di scrivere. Lo dimostra, per ricorrere a un esempio recente, la qualità della scrittura di Bob Dylan nel primo volume della sua autobiografia.
Il capitolo dedicato alle registrazioni di Oh Mercy e al viaggio in moto tra le paludi della Louisiana ricorda certe pagine di Truman Capote, ma tutto il libro dimostra che Dylan è uno scrittore vero, che non ha nulla da invidiare a nessuno anche in questa veste. Quello di Steve Earle, nato in Virginia nel 1955, è un nome noto qui da noi soprattutto agli intenditori del più classico suono americano.
Capace di usare il linguaggio duro ed energico del rock come quello essenziale e vicino alla tradizione del folk, Earle ha scritto veri e propri classici come Christmas In Washington - ripresa anche da Joan Baez nel suo ultimo album - o The Mountain ed è stato uno dei promotori di "Tell Us The Truth", un cartellone itinerante di musicisti a sostegno di John Kerry nelle ultime elezioni presidenziali. Le rose della colpa è stato pubblicato in America nel 2001 e ora arriva sugli scaffali delle nostre librerie nella bella traduzione di Matteo Colombo.
Strutturato come un disco - ognuna delle undici storie che lo compongono potrebbe essere una delle sue canzoni - il libro di Earle è un desolato ritratto dell’America degli ultimi cinquant’anni e ci dice di questo grande paese molto più di quanto potrebbe fare il saggio di un sociologo.
L’ascesa e la caduta di una rock star; l’amicizia tra un vagabondo e un poliziotto; i tentativi dei lavoratori messicani di passare la frontiera con gli Stati Uniti; il razzismo vissuto sulla pelle di un adolescente nero; il dramma e la fine di due tossici; il suicidio di un veterano del Vietnam o l’esecuzione di una condanna a morte sono narrati da Earle con la precisione e la perizia di un chirurgo. E "La valigia rossa", parabola dello scontro (inevitabile?) tra uno "scemo del villaggio" e le istituzioni, è molto semplicemente uno dei racconti più belli che ci sia capitato di leggere in questi ultimi tempi. Quando conoscere il proprio paese fin nelle sue pieghe più oscure significa amarlo più di tanti falsi patrioti.
Giancarlo Susanna
accordo.it
11 Dicembre 2005
Steve Earle è un’icona del folk rock e in genere della cultura "left wing" americana. Autentico outsider della società e dello show biz, vive come se fosse il personaggio di una delle sue canzoni. O di uno di questi racconti, pubblicati nel 2001 negli Stati Uniti e portati in Italia - finalmente! - da Meridiano Zero col titolo Le rose della colpa. Racconti che potrebbero essere messi in versi e musica da Woody Guthrie, Bob Dylan o Bruce Springsteen (o dallo stesso Earle), incursioni d’autore nell’America che non compare nelle pubblicità al cinema, tra Tennessee, California del sud, Texas.
America di musicisti e reduci, che Steve Earle mette nelle pagine con un ritmo che fa scorrere le pagine leggere, alla faccia della drammaticità, come se le storie fossero sottolineate dagli arpeggi dalla sua vecchia Gibson Southern Jumbo (quella che negli anni ’90 era finita al banco dei pegni per raccattare qualche dollaro extra da "investire" nell’eroina che lo ha schiavizzato per un decennio, accopagnandolo fino nella cella di un aprigione di stato). A conoscere la storia di Earle si comprende meglio questo splendido libro, titolo originale Doghouse Roses, dove il protagonista è sempre lui, che di volta in volta si traveste da reduce del Vietnam, da assassino sfuggito alla giustizia, da scemo del villaggio, da giovane promessa della musica country. C’è sempre lui nel fondo di tristezza e ineluttabilità che emerge dalla psicologia di ogni personaggio di questo libro, drammatico, ma vivo e vitale. Feroce, ma intriso di saggezza popolare.
Intenso, ma capace di scorrere lieve, pagina dopo pagina, facendo di ogni dramma umano una storia di vita vissuta, quindi per definizione, un frammento di eternità, parte del tutto. Kudos a Marco Vicentini, patròn di Meridiano Zero, per aver portato in Italia queste splendide pagine. Imperdibile.
Come imperdibile è il suo ultimo CD: The revolution starts.
librialice.it
25 Novembre 2005
"Niente dura per sempre. Nessun luogo. Nessun tempo. Nessuna abitudine. Nemmeno in un paesino. A noi, quelli che ci vivono, piace pensare di lasciarci dietro una sorta di rituale perpetuo, uno schema che sia d’esempio ai nostri figli e ai figli dei nostri figli, il nostro piccolo tentativo collettivo di ottenere l’immortalità. Vogliamo credere che le nostre tradizioni dureranno, forse perché è la vita in sé a essere così sfuggente. Ma le cose, molto semplicemente, non stanno così. I cicli nel tempo si esauriscono, per poi essere rimpiazzati da altri cicli nuovi e perfezionati. Quasi tutti viviamo vite tra parentesi, esistenze comodamente racchiuse entro i confini di un’era nettamente delineata."
Tra modernità e tradizione, tra America e "il mondo nuovo" che USA e (ri)getta con la stessa velocità di un ragazzino che fa zapping tra un canale l’altro. Da una parte la generazione di Steve Earle, forse l’ultimo vero cantautore americano veramente contro il sistema, dall’altra una "non-generazione" cresciuta all’ombra di MTV. Quella che descrive Earle, in questa raccolta di racconti, è un’America "dylaniata": alle parole si sono sostituite le icone, alla musica lo show biz e alle ferite della realtà la fiction dei reality. In queste "short story", debutto letterario di Earle, c’è tutto il suo mondo: quello che ha visto, vissuto e raccontato tra note sempre stonate. L’America degli ultimi, dei derelitti, dei dimenticati: gli stessi che hanno raccontato anche Steinbeck a Bukowski.
Gli stessi uomini alla deriva tra le illusioni di un’America che non ha più tempo per guardarsi indietro e, soprattutto, per guardarsi dentro. Earle - e qui, paradossalmente, sta la sua forza narrativa- racconta storie che nessuno vuole più ascoltare. Quella, ad esempio, su come sia cambiato il mondo della musica. Si intitola "Billy the Kid" e demolisce un mito: "Nashville, l’ultima della grandi città musicali, un posto dove chi scrive canzoni ma non le canta può venire a vendere metà dei suoi diritti d’autore in cambio di uno stipendio fisso e della possibilità, un bel giorno e con un po’ di fortuna, di racimolare gruzzoli a sei cifre".
A questo e a molto altro si è sempre opposto Steve Earle: dalla guerra alla pena di morte. Le sue posizioni sono sempre state estreme: in questi racconti come nel suo album del 2002, Jerusalem. Un album che ha fatto talmente discutere da essere boicottato negli States perché al suo interno conteneva una canzone, John Walker’s Blues, dedicata all’americano passato dalla parte dei talebani in Afghanistan. Una storia, un’altra, che ha diviso l’America. Su due fronti. I perdenti, i milioni di "losers" di perdenti raccontati da Steve Earle, e i vincitori: comodamente seduti a casa, persi, tra un video di MTV e un bombardamento in Iraq.
Gian Paolo Serino
bielle.org
Novembre 2005
"Le rose della colpa", così le chiama Bobby nel racconto omonimo. E le rose della colpa sono quelle che si vendono, avvolte nel cellophane, alle casse degli autogrill e servono a scusare gli uomini che tornano a casa troppo tardi, dopo aver dimenticato, mai abbastanza a lungo, un compleanno, un anniversario. "Doghouse roses", è l’originale. Chissà cosa avrà mai voluto farsi perdonare Steve Earle, con questo splendido mazzo di rose? Quali promesse non mantenute e, soprattutto, a chi? Vien da chiederselo.
Come mi è venuto da chiedere se stavo comprando un disco in meno, o un disco in più, mentre facevo la fila alla cassa di Feltrinelli (non ci sono rose della colpa alla cassa di Feltrinelli!). "Quando si metteva a cantare, tu gli credevi", dice un personaggio di un racconto, riferendosi alle esibizioni di una giovane stella del country, ed aggiungendo un tassello in più alla teoria dei "tre accordi e la verità". Ed è facile credere nelle storie che ci racconta Earle, qui e sul rigo musicale delle sue canzoni. È facile credergli, ed amarlo, mentre canta e racconta le sue storie. Mentre ci racconta la "sua" America. Fra guerra del Vietnam e droghe, fra frontiera messicana e pena di morte. "Mamma mi ha detto anche fai quel che ti pare ma non andare a Taneytown" – si legge nell’unico racconto che è anche una canzone nel suo El corazón.
Una storia dove un ragazzo nero scende giù in città, si trova nei guai e, per difendersi, uccide un ragazzo bianco. Riesce a scappare, mentre gli abitanti della città trovano un colpevole nero da linciare al posto suo. Storie sbagliate, storie di un’America sbagliata, raccontate da uno splendido cantautore, o meglio uno "storyteller", un c(a/o)ntastorie. No, non è uno scrittore Steve Earle. Perché come dice Anna la rossa (Anna di Francia?), a Parigi – "mai innamorarsi di uno scrittore, chéri, specie se di talento. Gli scrittori si vantano delle loro imprese amorose, in pubblico come in privato. Vai a letto con uno di loro, e tutti i suoi amici verranno a fare la fila alle sue spalle. Se poi ti innamori di lui, come prima cosa ti spezzerà il cuore, e quindi trasformerà il tuo dolore in inchiostro per macchina da scrivere. A quel punto comincerai a vivere nel terrore del giorno in cui verrà pubblicato. Conviene di più amare un pessimo scrittore, che si porterà i suoi segreti nella tomba. O, meglio ancora, un rivoluzionario. I rivoluzionari sì che sanno mantenere i segreti. Devono. Per loro è questione di vita o di morte".
Già, una questione di vita o di morte. Così come lo è, questione di vita o di morte, per parecchi dei personaggi che popolano le storie di Earle. Ma è anche questione di vita o di morte che queste storie vengano raccontate, cantate. È questione di vita o di morte che siano la verità. Franco Senia PS: per chi non sapesse chi è Steve Earle (ma è possibile che qualcuno legga qui e non sappia chi è Steve Earle?): da giovane country-rocker americano poteva essere definito una promessa. Siamo nell’86 e se ne esce, a soli 21 anni, con un Guitar Town immaturo, ma pieno di grinta e calore.
Chitarre in evidenza e ritmiche vivaci, ma una solida base da story-teller per il giovane Steve, nato in Virginia, sotto il segno del capricorno come Gesù Cristo, ma cresciuto in Texas e da sempre identificato come texano. Le canzoni sono tutte sue e i Dukes, che lo accompagnano, mettono in mostra anche pedal steel e mandolino, oltre alla normale strumentazione rock. In precedenza, il suo vero debutto su vinile è comunque in un disco storico: il mitico Old n.1 di Guy Clark, registrato a Nashville, dove suona la chitarra e fa da seconda voce.
Vista la sua permanenza in Tennessee in quel periodo, rientra anche nel film Nashville di Altman, dove però è solo uno tra la folla. Exit O e Copperhead Road (1987 e 1988) confermano il buono che si dice di lui, anche se Copperhead road segna una decisa svolta verso il rock per il ragazzo che, a quel punto, ha venduto oltre un milione di copie dei suoi dischi, ha avuto 4 nomination ai Grammy’s ed è stato scelto come artista country dell’anno da Rolling Stones per il 1986. La svolta rock di Steve fa meno rumore di quella di Bob Dylan. Anche l’album successivo, Hard Way del 1990, già dal titolo tradisce la sua deriva rock. Poi iniziano i problemi con la droga che lo portano alla rottura del contratto discografico con la MCA che l’ha prodotto fin lì, a una lunga crisi creativa durata quattro anni e a varcare la soglia della prigione per detenzione di stupefacenti, da cui saraà rilasciato nel ’94, sulla parola, dopo aver partecipato a un programma di riabilitazione. Dobbiamo aspettare fino al 1995 per celebrarne la resurrezione artistica, ma (sorpresa!) il rocker non c’è più. O meglio, c’è ma in fondo. Train A comin’ è un album di soffici ballate avvolgenti, acustiche, più vicino al folk contemporaneo, all’americana che al country, edito da una piccola etichetta. È cambiata anche la voce, più calda, più scura. I brani sono sempre suoi tranne un tributo a Lennon-McCartney (I’m looking through you), uno a Townes Van Zandt (Tecumseh Valley) e la vecchia River of Babylon. Da lì in poi una serie di dischi capolavoro, uno dopo l’altro, con pochissime sbandate, tutti editi per la propria neonata casa discografica, la E-squared: I feel alright, El corazón, The Mountain (un disco di bluegrass con la Del McCoury Band), Trascendental blues (questo non è tra i miei preferiti), Jerusalem e The revolution starts... now, questi ultimi due sono invece due pietre miliari. Nel 2001 esce il suo primo libro, Doghouse roses, tradotto quest’anno in italiano...
G.M.
libri.castlerock.it
20 Settembre 2006
Undici istantanee dell’altra America
Con questo Le rose della colpa, Steve Earle porta su carta le sue storie, dà loro una forma letteraria immediata e accattivante, le riversa in undici racconti in cui i suoi temi e i suoi personaggi sono tutti presenti e riconoscibili. Qualsiasi cosa si possa pensare del percorso artistico e personale di Steve Earle, gli si deve riconoscere senz’altro una grande coerenza.
Cantautore folk-rock di grande impatto e spessore, una vita vissuta per buona parte sul filo del rasoio, i problemi di tossicodipendenza culminati nell’arresto nei primi anni ’90, poi il riscatto e la rinnovata voglia di farsi cantore dell’altra America: quella dei diseredati, dei vagabondi che percorrono le highways in cerca di qualcosa che sembra sempre sfuggir loro, tuttavia incapaci di fermarsi; quella degli immigrati clandestini, dei piccoli spacciatori, dei detenuti sepolti nei bracci della morte in attesa della fine.
Con questo esordio letterario, datato 2001, Earle porta su carta le sue storie, dà loro una forma letteraria immediata e accattivante, le riversa in undici racconti in cui i suoi temi sono tutti presenti e riconoscibili. Il songwriting del cantautore texano si adatta così alle dimensioni e alla struttura narrativa della pagina scritta, si dilata fino ad assumere la forma-racconto mantenendo intatta la sua forza evocativa, la capacità di descrivere, con poche parole, un immaginario e dei personaggi palpitanti di vita reale, vissuta fino in fondo e accettandone tutte le conseguenze.
C’è l’uomo Earle in "Le rose della colpa", racconto che dà il titolo alla raccolta e storia fortemente autobiografica, in cui si narra della caduta e del riscatto di una rockstar dipendente dal crack; c’è l’elegia della vita nomade, senza radici e tuttavia capace di portare con sé per sempre luoghi e persone incontrati e vissuti, nello struggente Wheeler County; c’è la descrizione minuziosa, potente ed evocativa della vita della provincia de "La valigia rossa", unita all’amara consapevolezza della sua inevitabile fallacia; c’è il razzismo e la violenza obbligata di "Taneytown", riuscita trasposizione in racconto di una canzone dell’autore; c’è poi la parabola di un ex marine, trafficante e avventuriero (chiamato semplicemente "l’americano"), in una ideale trilogia costituita da "La danza del giaguaro", "L’internazionale" e "La rimpatriata". Su tutto, domina una prosa improntata ad un forte realismo (a volte brutale, come in Una sorta di elogio funebre, livido ritratto di vite distrutte dalla tossicodipendenza), ma capace anche di aperture a toni epici e quasi favolistici, figli di una tradizione a stelle e strisce che identifica, nonostante tutto, nella necessità del viaggio e di un perenne vagare la ricerca di un irraggiungibile, e tuttavia sempre perseguito riscatto.
Una scrittura che accoglie persino una componente fantastica ed onirica, perfettamente integrata in una storia a tinte fortemente realistiche come il già citato "La danza del giaguaro", incentrato sulle condizioni di vita del popolo indio in Messico; una scrittura che alla fine si apre a un inaspettato lirismo nel conclusivo Un cuore pacificato, atipica storia d’amore in cui il fearless heart di Earle trova infine una forza e una tranquillità sconosciute, consapevole di essere sopravvissuto al più duro dei colpi. Se i paragoni riportati nel risvolto di copertina del libro (dove sono citati Steinbeck e Bukowski) sono forse un tantino azzardati, comunque non si può non accogliere positivamente questo esordio: i fans del cantautore vi ritroveranno i suoi temi, i suoi personaggi e la forza della sua scrittura (adattata al nuovo mezzo), mentre tutti gli altri troveranno un "esordiente" (virgolette d’obbligo) maturo e capace di regalare pagine di grande efficacia descrittiva e impatto emotivo. Speriamo solo che questo non resti un episodio isolato, e che l’autore possa regalarci nuove istantanee di quell’America che conosce così bene, e che nessuno più di lui è titolato a raccontare.
Marco Minniti