Autore: James Waddington
Che cos’è il doping per un ciclista? Un patto con il diavolo, e tra i due non è certo il diavolo ad avere la peggio.
Qualcosa di mai visto sta accadendo nel ciclismo professionistico. Uno dopo l’altro, i più grandi campioni vivono un periodo di rendimento eccezionale, trionfano con sconcertante facilità nelle gare più prestigiose e poi colano a picco in un repentino tramonto fatto di follia e morte. Morte violenta o morte sospetta. Denominatore comune di queste parabole, oltre all’effimera fama che tutti raggiungono, l’inquietante figura del dottor Fleischman. È un medico sportivo. Soprattutto, è un genio senza scrupoli. È lui ad assistere, di volta in volta, il ciclista-superuomo, che guizza sui tornanti come fosse spinto dagli dèi. Un giorno la traiettoria di Fleischman incrocia quella del campione più promettente, Akil Sáenz.
Sono caratteri opposti. Per il dottore la vita si situa molto al di là del bene e del male. L’importante è fuggire il quotidiano in un momento di vittoria. Battuto un record si può anche morire. Sáenz, invece, oltre alle sue doti di atleta, è una persona normale: ha una figlia, una donna che ama e un amico fraterno. Duri da morire è costruito attorno alla scelta faustiana di Sáenz: vale di più l’anima o una gloria senza paragoni? Un dubbio che interroga il lettore, mentre il romanzo si srotola sulle strade delle grandi imprese su due ruote: Italia, Francia, Spagna…
Waddington, grande appassionato di ciclismo e talentuoso scrittore noir, ci racconta lo sfinimento delle salite in cui "il corpo mangia se stesso" e il coraggio delle discese a centoventi all’ora.
E ci spiega il terribile equivoco del doping, la perversione di pensare che il corpo umano sia manipolabile all’infinito. Sono pagine veloci, dure. Pagine profetiche. Pagine ancora troppo attuali.
Chi sta uccidendo i più grandi ciclisti d'Europa?
Autore
James Waddington è cresciuto in Irlanda e ha vissuto in Zambia, all’epoca delle guerre di liberazione.
Ha iniziato a praticare lo sport grazie a un campione inglese di ciclismo, con cui poi ha corso e si è allenato sull’Appennino Toscano.
Lavora come commediografo e la sua ultima opera è stata rappresentata a Londra nel 1996. Si è ora dedicato alla letteratura e Duri da morire è il suo primo romanzo, pubblicato nel 1998.
Recensioni
Corriere della Sera
6 Luglio 2001
IL CASO WADDINGTON
Dall’epos all’Epo, il racconto dell’Apocalisse sulle due ruote.
Duri da morire, il libro dello scrittore inglese, descrive gli eccessi del ciclismo contemporaneo. Forse è tempo che esploda anche in Italia un "caso Waddington".
Chi è James Waddington? È un autore teatrale inglese fanatico e praticante di ciclismo, che tre anni fa ha pubblicato un romanzo (Bad to the Bone, Cattivo fino all’osso, ora in uscita presso meridianozero col titolo Duri da morire , pagg. 190, 23.000 lire) notevole per due motivi.
Primo: si tratta forse della più potente narrazione sul ciclismo dai tempi di Coppi e il diavolo di Brera .
Secondo: il libro - che ha come dorsale una vicenda di doping - usciva tre mesi prima che al Tour deflagrasse la vicenda della Festina. I PROTAGONISTI La qualità narrativo-letteraria dipende dall’originalità dell’impianto, che fonde una trama da thriller visionario (con componenti horror- splatter) a una descrizione iper-realistica del ciclismo "dall’interno", il tutto ricorrendo a luoghi, eventi, personaggi sia reali che immaginari, con effetti di ambiguità disturbante.
Al centro stanno due figure: Akil Sàenz, campionissimo della QiK, e Mikkel Fleishman, medico-direttore sportivo della Cosimo, i cui percorsi - intrecciati con quelli di agenti di polizia, donne, altri corridori - procedono a lungo simmetrici. Mentre infatti il corridore dagli occhi "color malva croco" accresce con le vittorie il suo carisma agonistico-mediatico, il medico demiurgo svolge il suo progetto sadico-satanico, drogando corridori che poi vengono trovati uccisi nei modi più ingegnosi, tipo Silenzio degli innocenti: uno squartato, le membra su un tavolo disposte a circolo intorno alla testa; uno appeso alla Torre del Mangia a Siena, il corpo scolpito in un intarsio di muscoli e innesti umanoidi cementati dal rosso di ceralacca; un altro ancora addirittura crocefisso - sullo sfondo di un tramonto montano "chiaro come lo spazio" - da un prete paranoico, Padre Blériot.
Poi, i percorsi di Sàenz e Fleishman si congiungono, perché il campione, in calo, passa alla Cosimo per stipulare a sua volta il patto faustiano: vincerà anche l’ultimo Mondiale, ma verrà ovviamente giustiziato, chiudendo la storia in una tonalità di orrore appena lenita dalla morte bestiale di Fleishman, opera di un compagno di Sàenz.
IL VENTOUX
Disseminata lungo questa rappresentazione del tecnociclismo di oggi come allegoria iperbolica dell’eccesso biologico, ecco però appunto tutte le componenti di quell’universo, sottoposte a un’autopsia visiva insieme smagliante e orrorifica; come smagliante e orrorifica è la scrittura di Waddington, in alternanza impressionistica e espressionistica, sempre ricca di metafore metalliche e deliranti. Ecco una natura che emoziona e spaventa, come nella "fornace" del Mont Ventoux, dove una "foresta d’ombra verde" fa intravedere all’uscita "la luce abbagliante dello scisto".
Ecco lo spaziotempo della corsa coi suoi sfumati, come quando i velocisti "ti passano davanti agli occhi mentre la luce del giorno si spegne e si accendono i lampioni dorati". Ecco un baedeker dei luoghi di tappa classici eppure poco noti, dal villaggio di Venta Quemada con "le sue vie di pietra, la sua polvere, le sue basse case dai tetti di cotto" ai tornanti dolomitici col "delta di brecciolino" e con le "madonnine ai lati delle strade".
Ed ecco, soprattutto, i corridori. Qui Waddington alterna un duplice sguardo cinematografico: uno panoramico, oggettivo (come dall’elicottero); e uno in impressionanti soggettive, cioè dalla mente del ciclista, per il quale lâelicottero stesso è un rombo-ronzio che rode i nervi. Lo sguardo panoramico fa sembrare la corsa unâastrazione elegante dalle cadenze musicali: una squadra che accelera al Quartirolo sembra "uno stormo di uccelli che cambiano direzione", e più in generale certe azioni di gruppo hanno "il ritmo delle oche selvatiche durante la migrazione", quel ritmo tenuto con una semplice "inclinazione delle remiganti di un altro grado", senza aumento di frequenza del battito d’ali e senza sforzo visibile ("anche se potete scommettere che il battito cardiaco racconta tutta un’altra storia").
GLI SCALATORI
Lo sguardo in soggettiva - con cui la corsa sprofonda nella materia biologica - è proprio quello scandito dal battito cardiaco, sobbalzante nel torace "come un topo intento a scopare": cioè quello degli scalatori, "ragnetti dai polmoni come palloni gonfi d’elio"; quello dei gregari incazzati coi capitani e vomitanti "sputi, scoregge, insulti a tua madre"; e quello dell’atleta in crisi, che prima ha una "sensazione di malore simile a un’influenza", e poi arriva a "distinguere a malapena le sue membra da un’angoscia generalizzata". Ma c’è, a ben vedere, una terza variabile: la telecamera che inquadra squarci di vestiti, strumenti, frammenti di un cyber-ciclismo: la lycra nera in sei o otto pannelli; l’arco di maglia di propilene; la caduta di gruppo vista come "cascata di monoscocca di plastica frantumata"; il "lieve ronzare d’argento delle catene asciutte che roteano sui pignoni di titanio" che risuona come un "nugolo d’insetti notturni".
Proprio questa fusione dolorosa tra la "macchina umida" dell’uomo e quella inorganica della tecnica immette sull’altro versante del libro: il problema- doping. Più del libro stesso - che pure contiene anche riferimenti circostanziati, come all’autoemotrasfusione di Moser, che doping, allora, non era - può essere utile tornare alla polemica Waddington- Donati successiva al caso Festina.
Ospitata sulla rivista specialistica Procycling , la discussione ha visto Waddington come antiproibizionista: dato per acquisito il doping generalizzato, la vocazione al rischio degli atleti (in America lâ80 per cento disposti alla morte a lungo termine pur di avere risultati sul breve), l’inevitabilità delle pressioni di sponsor e farmindustria, Waddington ha proposto la "liberalizzazione" di un doping in cui medici trasparenti "orchestrino" in maniera sicura il metabolismo di atleti più consapevoli.
DONATI
La replica di Sandro Donati, dura quanto argomentata, ha imputato a Waddington misconoscenza e utopismo.
Misconoscenza sul prezzo che il doping esige (l’Epo che dà rischi cardiocircolatori e inibisce nel tempo la produzione naturale di globuli rossi); sul fatto che miglioramenti medi delle performances tramite doping si ripercuotono sulle generazioni successive; sull’alterazione che il doping introduce nella programmazione di allenamenti e carichi di lavoro; sull’occultamento individuale, da parte degli atleti, sia dei cocktail efficaci sia delle degenerazioni ad attività cessata.
Utopismo sul comportamento trasparente ed etico di medici e industrie farmaceutiche. Molti medici infatti - come mostrano le indagini di polizia - a tutto tengono fuorchè alla salute degli atleti o alla personalizzazione dell’assistenza (ricette tutte uguali), e in ogni caso per una vera "orchestrazione" personalizzata del metabolismo dovrebbero stare con l’atleta "tutto il giorno tutti i giorni". Le corporations che producono e vendono Epo, Hgh, Igf, testosterone e steroidi dovrebbero, per poter tutelare gli atleti, limitare produzione e vendita al necessario.
Invece - anche questo è dimostrato - sono inclini - aiutate dagli sponsor - a indurre il bisogno e poi ad assecondarlo.
IL PROBLEMA DOPING
Una posizione univoca sul tema, ovviamente, è impossibile. Lo stesso Waddington, in un articolo recente dopo la notte del Giro d’Italia, ha rivisto molte sue posizioni, anche perché non ha potuto ignorare la pratica dei chemioterapici somministrati ad atleti sani, innescata dall’anomalia del caso Armstrong, che si dopava curandosi.
Ma non si può non vedere come al fondo della soluzione pragmatica si stagli, minaccioso come una montagna, il problema filosofico del doping. Quelli che si compiacciono di una visione amorale delle cose ed esaltano o anche solo giustificano il doping come oltranza necessaria a misurare i limiti della specie, pronunciano tre mistificazioni in una: estetica, perché fanno della cattiva letteratura sulla pelle degli altri; scientifico-logica, perché il doping compromette una vera misurazione del limite; filosofico-scientifica, perché se la vita è già - come scrive Waddington nel romanzo - "la lenta metamorfosi dello zigote nel cadavere", il doping è solo un acceleratore sicuro e parossistico del processo.
Alla fine, non c’è niente di grandioso nel vedere atleti sacrificati al Moloch del profitto che li ingurgita e li defeca. Il calembour è facile ma efficace: dall’epos all’Epo - dal ciclismo di ieri a quello attuale, e sia detto senza nessuna nostalgia - la "s" che cade spalanca un abisso di cui non si vede il fondo.
Sandro Modeo
D La Repubblica delle Donne
31 Luglio 2001
Sui temi attuali della cronaca si snoda invece la trama di Duri da morire, scatenato noir di James Waddington.
Critico letterario e sportivo appassionato, Waddington ci fa conoscere i meccanismi che corrodono il mondo del ciclismo, stravolto da omicidi inspiegabili e dagli scandali del doping. I più grandi atleti, una volta arrivati al successo, muoiono o spariscono in modo teatrale.
II perché verrà poi svelato all’ultima tappa del Tour, che ha come protagonista il supercampione Akil Sàenz, impegnato in una fuga solitaria che seguiamo passo a passo, guidati dal diverso ritmo della prosa.
Antonella Fiori
Diario
20 Luglio 2001
Il diavolo in sella
C’è una cosa che James Waddington, commediografo inglese con l’amore per il ciclismo, sa molto bene: non si può descrivere la fatica in bicicletta. Il suo libro Duri da morire - una sorta di moderno Faust trasportato in uno degli sport fisicamente più impegnativi - apre riportando le parole di un corridore che, a proposito della fatica, dice: "È qualcosa che si può solo provare". C’è anche un’altra cosa che pensiamo Waddington sappia: oggi un romanzo di fantaciclismo va scritto in tempo reale, altrimenti rischi di essere attuale.
Un esempio: Mikkel Fleiscman - nella trasposizione del commediografo inglese - è il medico che corrompe, usa e sperimenta sugli atleti sostanze proibite, facendogli raggiungere traguardi ambiziosi, ma condannandoli a una morte prematura e mostruosa. Insomma è lui il diavolo, colui che chiede l’anima. L’intrigante romanzo: Duri da morire, che segna tra l’altro l’esordio letterario di James Waddington, è la storia di Akil Saenz, un celebrato campione che si appresta a vincere il suo quinto Tour de France, entrando così nell’olimpo dei grandissimi come Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Miguel Indurain.
Proprio nell’anno della sua celebrazione, il campione comincia a incassare qualche sconfitta inaspettata da parte di corridori sconosciuti. Akil Saenz capisce che qualcosa di strano sta succedendo e che il tutto è riconducibile al dottor Fleiscman, medico di una squadra, la Cosimo - perché un nome italiano? Si fanno allusioni alle recenti travagliate cronache? - che porta corridori in parte sconosciuti alla vittoria, ma che li vede poi morire in circostanze strane. Talmente diavolo il dottore che, per convincere il campione a cedere alle sue lusinghe, userà una scena evangelica. Porterà Akil in cima a una montagna e segnalandoli il panorama gli dirà: "Tutto questo sarà tuo".
Akil purtroppo accetterà anche perché è già dopato di se stesso per rinunciare al sogno di restare il numero uno. Oltre al campione, il dottore e il ciclismo malato, gli altri protagonisti di questa storia sono: Perlita, donna non fedele ma innamorata del campione, che con il suo erotismo solare sembra tornata (e forse c’è stata davvcro) da tanti romanzi. Patrul, amico e gregario fedele in corsa, ma non nella vita (o forse lo è fin troppo) essendo, oltre che amico, amante di Perlita. Lui a differenza del campione capisce che la vita dura più d una carriera. Infine Gabriela Gomelez, improbabile ispettrice di polizia che indaga sulle morte sospette dei corridori.
L’investigatrice, inciampando tra verità e fantasmi, cerca sì gli assassino, ma probabilmente anche un pezzo di se stessa. L’amore per il teatro da parte dell’autore, traspare subito. I suoi personaggi sono immediati, nel bene o nel male non lasciano spazio ad ambigiutà. James Waddington conosce bene il ciclismo agonistico, vedendo sfilare il gruppo di corridori di quel gruppo sa cogliere gli attimi, i movimenti in testa e in coda, s’impone però di combattere il demone, quello che può permettere a chiunque l’impresa: il doping.
Bisogna spiegare a chi non è appassionato che il fatto che tutti possono fare tutto, nel ciclismo è un concetto bello solo nella teoria. Il ciclismo ha un mondo proprio e concetti come democrazia e uguaglianza possono essere devastanti quanto una dittatura in una società. Le rare volte che questi due concetti arrivano nel ciclismo portano disinteresse, apatia, si fanno le cose perché si devono fare.
Il ciclismo agonistico ha e deve avere ruoli precisi. Ci vuole un re, tanto forte che ogni sua sconfitta deve essere quasi una festa, un re da battere ma da temere quando vuole umiliarti. Ci vogliono i guastatori, i corridori estrosi, non forti come il re, ma capaci di mandarlo in crisi con azioni imprevedibili. Accanto a loro le giovani promesse, ragazzi che per dimostrare di poter diventare campioni, devono almeno provare a irritarlo, il re. Infine c’è la ciurma dei gregari, sudore e polpacci perennemente tirati e sporchi, dove ogni tanto qualcuno si ribella e va a vincere una corsa. Senza tutto questo Waddington lo sa, e come antidoto, quasi a proteggere questo mondo fa parlare i suoi personaggi come se fossero stati catapultati nella storia. I loro dialoghi a volte sembrano rubati a una notte bastarda in periferia, altre volte soffiate a bambini con sogni e paure in un intreccio di finti segreti e verità taciute.
Alla fine l’esperimento di James Waddington, basato su teatro e agonismo, sembra riuscito. L’appassionato di ciclismo, e questo Waddington lo sa e forse lo vuole, appena chiusa l’ultima pagina sente il bisogno d’aria, di pensare a qualcosa di tenero fosse anche solo il ricordo di strade non asfaltate.
Nicola Montell
Pulp
Settembre 2001
Da non confondere con il romanzo di Jess Mowry uscito in Italia con lo stesso titolo per Einaudi, questo Bad to the Bone è un grandioso e originale romanzo sul ciclismo davvero ben tradotto da Umberto Rossi.
Una traduzione le cui difficoltà risiedono nel gergo quanto mai preciso di uno sport che si presenta con linguaggi e riti quasi iniziatici, dove la storia e l’epopea del ciclismo si distendono su uno sfondo incerto tra il noir, lo splatterpunk e la fantascienza. La lettura procede con la stessa eleganza di una pedalata regolare, pronta ai cambi di velocità, e il lettore segue le pagine lungo un percorso che procede ambiguo, quasi doloroso, forse moraleggiante, ma che lascia una profonda inquietudine.
Mi aspetto che Duri da morire possa anche non piacere, che il lettore votato alla matematicizzazione del testo possa ritenere che la dimostrazione si insufficente, ma il romanzo non trae bellezza dall’impalcatura razionale del crimine e della scoperta delle sue motivazioni, piuttosto attrae per la sua atroce lettura postmoderna dello sport, per la sua capacità di ostentare il paradigma di un corpo che non ha più nulla di umano. Il ciclista di Waddington è un cyborg, un essere in parte uomo e in parte macchina.
È lui stesso un meccanismo migliorabile, come un pignone o un cerchione, ma che essendo stato umano deve procederre attraverso un’invasione chimica. Certo aleggia anche un macabro rito mai svelato, ma la bellezza consiste forse in questa visione di martirio che vede il ciclista sacrificare la propria vita, sottoporsi a terapie mortali, solo per il trionfo di una stagione. "Angeli su ruote" scrive Waddington presentandoci una metafora sublime di una società che chiama l’umano a sfide impossibili e dove l’impresa sportiva (dall’alpinismo, alla vela, fino al calcio) precede la sfida del lavoro e del tempo libero. I martiri di Duri da morire sono lo stadio estremo di un processo di artificializzazione che lo sport ostenta ma che è avanguardia dell’esistenza intera, di una dissoluzione morale perché la moralità classica stenta a essere un modello utile alla vita.
Ma lo sguardo che questo libro da sullo sport è quasi devoto, e dice alla fine: "Potremmo sentire la tentazione di dire loro che non avrebbero dovuto farlo, ma possiamo restare segretamente orgogliosi di ciò che hanno fatto. I loro sguardi esangui e sofferenti son per noi un’offerta sacrificale." Domenico Gallo
la Repubblica
15 Agosto 2001
Così il doping diventa un giallo
C’è voluto lo scandalo del doping e il clamore suscitato dal blitz di Sanremo per indurre un editore di Padova - Meridiano zero - a comprare i diritti di un romanzo scritto nel 1998 (probabilmente sulla spinta emotiva del caso Pantani), approdato lo scorso a dedicata al ciclismo non è una cenerentola. Bad to the Bone di James Waddington, tradotto da noi Duri da morire, è un insolito giallo ambientato ovviamente al Tour, anzi, come dicono i francesi, un noir che si consuma nell’inferno del Tour. L’ultimo si è appena concluso con la scontata vittoria dell’americano Armstrong, il quale ha dominato la corsa ma non ha scacciato i pesanti sospetti che lo circondano da quando ha confessato di avere come medico sportivo il dottor Michele Ferrari, sotto inchiesta in Italia. Dunque Akil Saenz è un fuoriclasse. Ha già conquistato cinque Tour, ha affiancato nella leggenda Hinault, Merckx, Indurain. Dispone di una squadra forte, compatta, equilibrata. Però qualcosa non va come dovrebbe andare.
Un ciclista fino allora mediocre, che corre in una squadra sponsorizzata da una casa farmaceutica, lo batte. È una sconfitta inaspettata, stupefacente, in ogni senso della parola. Nel gruppo prevale la cultura del doping. Ma Saenz, il fuoriclasse, ha sempre pensato di potere farne a meno: per via delle sue eccezionali caratteristiche fisiche, per la sua capacità di gestire la corsa, per il suo infallibile modo di comandare le operazioni. Invece, succede che uno qualsiasi vada più veloce di lui, vada come nessun altro è mai andato. Nei due anni successivi, la manfrina si ripete: Saenz, il favorito perde più spesso del solito. Battuto da colleghi che di solito, nei momenti cruciali della corsa, non lo vedevano se non di schiena. Surclassato da meteore della bicicletta, che schizzano fuori dalla pancia del gruppo per non farsi più riprendere.
Poi, altrettanto improvvisamente, costoro perdono la ragione. E muoiono, uno dopo l’altro, in circostanze misteriose. La loro gloria è stata effimera, incompleta, ma quel poco che hanno avuto li ha resi più forti del fortissimo Saenz. Il quale capisce di essere arrivato al bivio della carriera: rischiare di perdere o ’inoltrarsi nel segreto’ che ha reso quegli avversari così straordinari.
James Waddington è un bravo commediografo che ha da poco superato i quarant’anni. Ha avuto una vita avventurosa: è cresciuto in Irlanda, ha vissuto in Zambia, all’epoca della guerra di liberazione. Ha svolto parecchie inchieste sui paricolosi rapporti tra doping e ciclismo. La sua scrittura è incalzante, come gli scatti dei velocisti. C’è una sorta di pietà nei confronti di questi uomini su due ruote i cui corpi sono sottoposti a sforzi disumani, trasformati in macchine proteiniche. Sofferenza pura, si giustifiano i corridori.
Niente richiede un tale sforzo protratto come una corsa ciclistica che dura tre settimane. Alla terza settimana il corpo di un ciclista, quando ci sono le montagna più alte, comincia a mangiare se stesso. Per questo "ci si aiuta". Ma a quale prezzo? "È un miracolo se i corridori non ritornino tutti a casa loro in ambulanza", dice il luogotenente di Saenz. L’intrigo del romanzo è giocato su una struttura stilistica quasi pirandelliana: la storia viene raccontata dai punti di vista dei personaggi principali. Insieme, le loro testimonianze compongono un’epopea desolante, struggente.
Dietro i successi della squadra sponsorizzata dall’industria farmaceutica - ecco l’invenzione letteraria che attinge alla cronaca, alla realtà - sembra esserci un enigmatico dottore.
Costui avvicina Saenz. Scena faustiana: la letteratura soccorre il cronista, talvolta. Saenz si lascia irretire dalla bieca proposta del dottore. Perché se accetta sa che tornerà a vincere. La parabola si completa. Saenz infatti vincerà. Ma qui entra in scena una banda di killer mascherati. A Saenz toccherà andare in fuga un’altra volta, e non per vincere altre tappe ed altri Tour.
Leonardo Coen
la Stampa
9 Luglio 2001
Tour de France, la volata del diavolo
Il sogno di ogni ciclista è il paradiso, il palco del vincitore, baciato idealmente dalla folla e materialmente dalle miss degli sponsor. Ma quanto purgatorio, per arrivare a quel paradiso. E quanto inferno, per attraversare quel purgatorio. Nell’immaginario, il ciclismo è il campione che mette le ali e vola fin lassù. Nella realtà del giorno è la fatica più disumana. Nella sottorealtà, che si cerca di nascondere è il doping.
Mentre si avvia il Tour de France, può essere istruttivo leggere il romanzo di uno scrittore britannico, che si è ispirato alla Grande Boucle per raccontarci, fra fantasia e cronaca, i retroscena di quell’inferno.
L’autore, che ama il ciclismo, si chiama James Waddington, e parte da una confessione del più grande corridore del suo Paese, il recordman dell’ora Chris Boardman, già due volte maglia gialla. "È difficile da descrivere, forse è solo qualcosa che puoi provare, ma soffrire davvero, quando pensi ’Devo fare un’altra ora e mezzo di salita e poi ci sono altri dieci giorni’, è quello che accoppa la gente".
Il suo libro, coerente con le parole del corridore, si intitola Bad to the Bone e sta per apparire in Italia dall’editore Meridiano zero di Padova, sotto il titolo Duri da morire. Dietro i personaggi, dai nomi immaginari, spesso ispirati ironicamente a famosi scrittori, come Eco e Perec, Potocki e Lorca, è facile riconoscere alcuni fra i nostri più famosi forzati della srada.
Il protagonista, Akil Saenz, è uno spagnolo magro, potentissimo, alto 1,92: il ritratto di Miguel Indurain. E uno degli antagonisti più pericolosi è Ettore Baris, cattolico nel midollo, che si ferma al culmine della salita, dopo aver staccato tutti i rivali, per ringraziare la Madonna. Fin dalle prime tre lettere del suo nome non può non richiamare il nostro Bartali.
L’autore, prima di sbrigliare - anche troppo - la fantasia, è attento a descrivere il tremendo sforzo di questi personaggi, non paragonabile a quello di nessun altro sport: perché "niente richiede un tale sforzo protratto come una corsa ciclistica di tre setimane. Alla terza, quando sono sulle montagne più alte, "il corpo comincia a mangiare se stesso". Ma c’è il tarlo del successo a ogni costo che aggiunge veleno a tutte le tossine della fatica. C’è una gara perversa fra la medicina e lo sport, che spinge alla ricerca di sempre nuovi risultati.
Fino a trasformare gli eroi della strada in esseri geneticamente manipolati. Waddington cita il caso terribile di Francesco Moser, cui per varie settimane fu estratto il sangue dalle vene per separarne i globuli rossi, gongelarli nella glicerina e iniettarli poi tutti insieme all’ultimo momento, prima del record dell’ora. "Legale, forse, ma troppo vicino al vampirismo".
Di questo vampirismo i Duri da morire sono vittime. E molti di loro, dopo aver superato le prove estreme della corsa, muoiono davvero: come lo scrittore ricorda che accadde a Tommy Simpson sulla spietata ascesa al Mont Ventoux, nel 1967. Anche il protagonista del libro, già vincitore di cinque Tour, come Anquetil, Merckx, Hinault, cede alla tentazione, per battere il loro recorrd. E vende la sua anima, faustianamente, a un moderno Mefistofele, un medico svedese che gli inocula sostanze misteriose.
Vincerà, perchè ora nessuno può essere più forte di lui. E pagherà con la morte più atroce: in un finale metafisico, gli viene succhiato il cervello, che non era ormai più suo. È la vittoria del diavolo, è la sconfitta del ciclismo: lo sport, che, malgrado tutto, più continuiamo ad amare.
Giorgio Calcagno
Pulp
Settembre 2001
Da non confondere con il romanzo di Jess Mowry uscito in Italia con lo stesso titolo per Einaudi, questo Bad to the Bone è un grandioso e originale romanzo sul ciclismo davvero ben tradotto da Umberto Rossi.
Una traduzione le cui difficoltà risiedono nel gergo quanto mai preciso di uno sport che si presenta con linguaggi e riti quasi iniziatici, dove la storia e l’epopea del ciclismo si distendono su uno sfondo incerto tra il noir, lo splatterpunk e la fantascienza.
La lettura procede con la stessa eleganza di una pedalata regolare, pronta ai cambi di velocità, e il lettore segue le pagine lungo un percorso che procede ambiguo, quasi doloroso, forse moraleggiante, ma che lascia una profonda inquietudine. Mi aspetto che Duri da morire possa anche non piacere, che il lettore votato alla matematicizzazione del testo possa ritenere che la dimostrazione si insufficente, ma il romanzo non trae bellezza dall’impalcatura razionale del crimine e della scoperta delle sue motivazioni, piuttosto attrae per la sua atroce lettura postmoderna dello sport, per la sua capacità di ostentare il paradigma di un corpo che non ha più nulla di umano.
Il ciclista di Waddington è un cyborg, un essere in parte uomo e in parte macchina. È lui stesso un meccanismo migliorabile, come un pignone o un cerchione, ma che essendo stato umano deve procederre attraverso un’invasione chimica. Certo aleggia anche un macabro rito mai svelato, ma la bellezza consiste forse in questa visione di martirio che vede il ciclista sacrificare la propria vita, sottoporsi a terapie mortali, solo per il trionfo di una stagione. "Angeli su ruote" scrive Waddington presentandoci una metafora sublime di una società che chiama l’umano a sfide impossibili e dove l’impresa sportiva (dall’alpinismo, alla vela, fino al calcio) precede la sfida del lavoro e del tempo libero.
I martiri di Duri da morire sono lo stadio estremo di un processo di artificializzazione che lo sport ostenta ma che è avanguardia dell’esistenza intera, di una dissoluzione morale perché la moralità classica stenta a essere un modello utile alla vita. Ma lo sguardo che questo libro da sullo sport è quasi devoto, e dice alla fine: "Potremmo sentire la tentazione di dire loro che non avrebbero dovuto farlo, ma possiamo restare segretamente orgogliosi di ciò che hanno fatto. I loro sguardi esangui e sofferenti son per noi un’offerta sacrificale."
Domenico Gallo