Autrice: Susan Musgrave
Scritto in uno stile disincantato, punteggiato di un umorismo al vetriolo, Cargo di orchidee è un romanzo che sa giocare con le parole, e sa manovrare le emozioni in tutta la loro crudele ricchezza. Mentre critica spietatamente quella barbarie di Stato che è la pena di morte, ci parla di voluttà e disperazione, di abbandono e maternità, di erotismo e dipendenza. Una prosa intensa, “fisica”, di una densità a volte provocatoria, tra le cui pieghe si disegna un intreccio imprevedibile.
La storia si apre tra gli orizzonti ristretti di un penitenziario femminile degli Stati Uniti. Una scrittrice tenta di vivere con intatta dignità i propri giorni, anche se non è sempre facile per una detenuta del braccio della morte. Soprattutto se gravata dalla terribile accusa di aver ucciso il proprio figlio. Per lei e per le sue compagne di prigionia, Rainy e Frenchy – le “due migliori amiche che ha sempre sognato di non avere” –, l’ironia è una tecnica per ritrovare l’umanità di fronte al comune destino che le attende.
Ma dalla voce della donna sgorga il racconto di ciò che l’ha portata fino a lì. Il suo lavoro di traduttrice, una relazione insoddisfacente. Poi, durante una visita al carcere di Vancouver, una passione improvvisa, carnale, per Angel, boss della droga sudamericano. Rimasta incinta di lui, viene fatta rapire da Consuelo, che non è solo la moglie di Angel, ma anche il capo di un temutissimo gruppo di narcoguerrigliere colombiane. Dopo un rocambolesco percorso attraverso la Louisiana e il golfo del Messico, si ritrova sequestrata su un’isola caraibica, dove è spinta all’abuso di cocaina. Ben presto diventa chiaro perché Consuelo ha voluto “rubare” quel bimbo non ancora nato…
Nell’attesa del braccio della morte,
una passionaria “madre sin corazon”
riscatta insieme alle compagne di cella
una vita di incontri sconvolgenti, erotismo,
narcotraffico, rapimento e maternità…
In una disperata fuga da una “Reina de la Cocaina”
ben più spietata della Salma Hayek
ne Le Belve di Oliver Stone.
“Scrivere mi ha sempre salvato,
forse dal carcere, forse dal suicidio.”
– Susan Musgrave –
Autrice
Susan Musgrave, enfant terrible della letteratura canadese, è nata nel 1951 in California, ma è cresciuta a Vancouver e in seguito ha vissuto per lunghi anni in Irlanda, Inghilterra, Panama e Colombia. Ha pubblicato più di venti libri, tra poesia, romanzi, letteratura per ragazzi e saggi, vincendo il Tilden Award per la poesia e svariati altri premi. La sua vita è cambiata nel 1980, quando ha conosciuto, mentre era incarcerato, il bandito e scrittore Stephen Reid (alla coppia la BBC ha dedicato un famoso documentario, The Poet and the Bandit, La poetessa e il bandito) che poi ha sposato nel 1986 e da cui ha avuto due figli. Alla stesura di Cargo d’orchidee, opera intensamente impregnata di autobiografia, ha dedicato quasi otto anni di sofferta e quotidiana scrittura.
Recensioni
“Scenari tropicali, traffici illeciti,
fughe disperate, cocaina ed erotismo bollente…
Una scrittura lirica, attraversata da uno humor nero…
Un romanzo toccante ed eloquente contro
il carcere e la pena di morte…”
– Chatelaine
Pulp
Settembre/Ottobre 2005
Susan Musgrave afferma che uno scrittore deve proporre fatti estremi, e lei, poetessa e criminale, sembra sottointendere la grande forza delle esperienze personali per poter trasportare in letteratura una forma di tragicità altrimenti inafferrabile. Se pensiamo alla categoria degli "scrittori maledetti", spesso banalizzata dai troppi aspiranti montati dagli editor, e a scrittori come George Orwell (combattente e vagabondo) e Derek Raymond, è evidente la fisicità dell’esperienza estrema, e come questa ricada violentemente nella visione del mondo che esprimono i protagonisti delle loro storie. Susan Musgrave dichiara che la scrittura l’ha salvata dalla prigione e dal suicidio, e la sua intensa carriera letteraria è stata costantementte affiancata da un’esistenza vissuta a contatto con il lato oscuro della società. Un marito narcotrafficante e un altro celebre rapinatore fanno di lei molto di più di un’attenta osservatrice del mondo criminale, così diffusamente descritto dagli autori noir. Cargo di orchidee è una storia pesante e al limite del delirio, dai tratti talvolta grotteschi; un cinico flashback di una donna rinchiusa nel braccio della morte, in attesa dell’iniezione letale, accusata di aver ucciso il proprio figlio. Nonostante una tale premessa, la capacità letteraria di Susan Musgrave è tale da governare una tragicità assoluta come questa e imporre un’inquietante serenità. Il dominio delle parole è totale, nonostante la drammaticità dei fatti raccontati avrebbe consentito una dittatura della vicenda, come spesso accade nei libri di questi ultimi anni che trovano un successo proprio nel racconto dell’indicibile. Il perverso umorismo, sicuramente vicino ad alcune scritture dei fratelli Coen, è il segno della cura con cui la poetessa si rivolge al romanzo, un interesse non solo formale ma evidentemente politico. Un impegno non facile quello di dar voce, senza retorica o pietà, alle persone sotterrate nelle carceri.
Domenico Gallo
il Venerdì
24 Giugno 2005
Quell’attrazione fatale della poetessa per i banditi
Ha sposato un narcotrafficante e poi un rapinatore di banche. Eppure Susan Musgrave è una delle più note autrici canadesi. Ora in Italia arriva un suo romanzo. Che somiglia tanto alla sua vita.
"Un giorno, alle medie, il preside mi chiamò per dirmi che se avessi continuato a marinare la scuola, frequentando brutti ceffi e scrivere poesie, avrei finito per fare un solo mestiere: la puttana. Ero una bambina solitaria e pensai: "Impossibile. Non potrei mai lavorare con qualcun altro". Aveva ragione lei.
Susan Musgrave ha abbandonato la scuola a 15 anni, ha continuato a scrivere poesie e ad avere un debole per i malviventi (il suo secondo marito era un trafficante internazionale di stupefacenti; il terzo ha rapinato più di 140 banche a mano armata). Ed è diventata una delle più celebri poetesse del Canada: ha scritto svariate raccolte di versi, tre romanzi, libri per bambini, saggi, articoli, sceneggiature…
Ricevendo premi e riconoscimenti vari. "Scrivere mi ha sempre salvato, forse dal carcere, forse dal suicidio," racconta al telefono dall’isola di Vancouver, dove vive in una casa nel bosco, con le due figlie avute dai mariti fuorilegge. "Il caos che è in me si sfoga nelle parole e si riordina sulla pagina". Il suo romanzo Cargo di orchidee, che ora Meridiano zero pubblica in Italia, è un racconto violento, agghiacciante, con tratti di inaspettata umanità e ironia, ispirato alla sua vita estrema. La storia è narrata in prima persona da una detenuta nel braccio della morte di un carcere USA. Condannata per avere ucciso suo figlio. Soprannominata "la regina della cocaina". Com’è finita lì? Il ricordo di una vita disperata si alterna alla descrizione di una quotidianità assurda, in attesa dell’iniezione letale. Così riaffiora il matrimonio con un losco avvocato difensore dei signori della droga. La passione per un cliente del marito, un boss di un cartello columbiano: lei lo va a trovare in carcere e rimane incinta. Ma lui muore in un tentativo di fuga.
Si apre il baratro: la protagonista è rapita dalla moglie del boss, che la tiene prigioniera in Colombia, in condizioni disumane, e la nutre di cocaina. Finché non è più in grado di badare al bambino nato dall’adulterio. Fino a che punto il racconto è autobiografico, signora Musgrave? "Non sono mai stata rapita, né condannata per omicidio… Ma il mio primo marito era un avvocato penalista. il secondo, narcotrafficante, un suo cliente. Il terzo, quello attuale, Stephen Reid, che ho sposato in carcere nel 1986, ha problemi di tossicodipendenza da quando a 11 anni è caduto nella rete di un pedofilo, che fino ai 14 lo ha riempito di morfina. Dunque invento, sì, ma i germi di ciò che scrivo vengono dalla vita. Creda a me: quanto a durezza, la realtà supera la fantasia." Susan Musgrave è una donna che dice le cose come stanno. E come stanno le affronta. Le vicende della sua vita, intrecciata con quella di Stephen Reid, che negli anni Settanta fu uno degli uomini più ricercati dall’FBI come capo della Stopwatch Band, la Banda del Cronometro (rapine per 8 milioni di dollari), è stata ricostruita in un documentario della TV canadese CBC: La poetessa e il bandito. Le loro sono esistenze ai margini. Due studenti con una marcia in più, quanto a intelligenza: Susan nella cittadina di Victoria, sulla West Coast del canada, Stephen a Massey, nell’Ontario. Troppo svegli per accontentarsi di quel susseguirsi di giornate sonnolente in provincia: l’infanzia di lui è tosta, quella di lei è scontrosa. "Sono stata concepita sul battello da pesca di mio padre, in una notte di tempesta," ride Susan. "Da allora il mio elemento è il vento: più soffia, meglio sto. E come papà, che non sopportava le autorità, le imperfezioni e gli sciocchi, sono sempre a disagio tra la gente normale." Infatti a 15 anni scappa. Come dall’altro capo del Canada scappa Stephen. Sono gli anni Sessanta, quelli del movimento hippy: i due si sfiorano, senza incontrarsi, in un "raduno dell’amore" nel parco di Vancouver. "Mai fumato una sigaretta, prima, mai bevuto alcol, " racconta Susan. "Ho esordito con l’LSD." Tanto da essere ricoverata, un anno dopo, in un ospedale psichiatrico, dove l’unico sollievo è scrivere versi. Che finiscono nelle mani di un celebre poeta canadese, Robert Skelton: è lui a tirarla fuori di lì e a metterla in contatto con un editore. A 16 anni Susan, bellissima con tutte le sue poesie, debutta sulla scena letteraria canadese: quelle sue immagini di repressione e violenza cominciano a renderla sempre più famosa. Come famoso diventerà Stephen. Lui finisce la prima volta in carcere a 16 anni, per spaccio. "Mesi e mesi tra i criminali veri: ero il più giovane lì," racconta. "Da tossico disperato mi sono trasformato in bandito temibile." Presto è riacciuffato per rapina. Evade. Con altri due balordi organizza il più grande furto d’oro della storia canadese, quello che battezza la Banda del Cronometro. ma dopo un anno è di nuovo dietro le sbarre.. per poco: evade ancora, come i suoi complici. I tre varcano la frontiera e giù a rapinare banche statunitensi. Colpi perfetti, via col bottino in due minuti, senza sparare un colpo. Vita da nababbi per anni. Finché un riciclatore di denaro sporco non li tradisce. Intanto Susan si è trasferita su un’isola delle Queen Charlotte Islands, sedotta dalla natura selvaggia e dagli schizzati che vivono laggiù. Il suo primo romanzo, dichiaratamente autobiografico, narra la fuga da un amore violento nell’inquietante foresta dell’isola. Tornata sulla terraferma, sposa un avvocato, ma il matrimonio dura poco. È il 1979 quando una barca partita dalla Colombia e diretta in Alaska è costretta a fare scalo sulla costa canadese per un’avaria al motore. La polizia trova a bordo 33 tonnellate di marijuana. E il marito di Susan un nuovo cliente: Paul Nelson, responsabile di quel traffico. Lo difende e riesce anche a farlo scagionare contro qualsiasi evidenza. Mal gliene incolse: durante i festeggiamenti per la sua assoluzione, Susan annuncia al marito che seguirà Paul in Colombia. L’idillio dura due anni: lei scrive, lui continua a lavorare nei "trasporti", si fa per dire. Si sposano e nasce Charlotte. Ma nel 1982 Paul viene arrestato. E più o meno contemporaneamente viene acciuffato anche Stephen, a molti chilometri di distanza, in USA. È condannato a 42 anni in un carcere di massima sicurezza ed estradato in Canada. Dove ormai, sola con Charlotte, è tornata anche Susan, a comporre versi e lavorare per le case editrici. Stephen racconta: "Chiuso in quel luogo terrificante, decisi di metter su carta la mia vita: quella che non risultava dagli atti processuali. Iniziata quando quel pedofilo mi rubò il futuro." Un criminologo fa finire il manoscritto sulla scrivania di Susan.
"Non sognavo certo un altro marito dietro le sbarre, ma sono rimasta sedotta dal suo protagonista: commovente, con una straordinaria dignità," racconta lei oggi. "Credo ci si innamori di chi incarna le parti più segrete e inammissibili di noi stessi." Per mesi i due si corteggiano nella sala colloqui e infine si sposano nella cappella del carcere. Quando Stephen ottiene la libertà vigilata, costruiscono una casa intorno a un grande albero, in un bosco dell’isola di Vancouver, e nasce Sophie. Non solo: il racconto della vita di Stephen, Jackrabbit Parole, diventa un bestseller. Ma la quotidianità è insidiosa. Susan ormai è celebre, pubblica un libro dopo l’altro, interviste, articoli. Stephen stenta a scrivere il suo secondo romanzo. E torna a drogarsi. Di brutto: eroina, cocaina, alcol.
"Riuscivo solo a tenerlo in vita. A stento," spiega lei. "Vivere con un tossico è come piombare in un vortice. La forza? La trovavo nella sua dolcezza di padre affettuoso, marito fedele, amante garbato, amico generoso. Ci può essere molta umanità anche nei criminali. Un paradosso? La vita ne è piena: ci può essere molta crudeltà anche in chi cerca di raddrizzarli." Tirano avanti dieci anni. Finché Stephen non rapina un’altra banca. Un colpo mal fatto, quando è fuori di testa: per la prima volta arriva a sparare. È un caso che non ci siano vittime: gli danno 18 anni di reclusione. Oggi è dentro da 6.
"Dopo aver distrutto tutto il resto," commenta Susan, "deve aver cercato di distruggere anche la sua antica immagine di bandito scaltro."
Lei aspetta il suo ritorno? "Non sono il tipo. So che è inutile: le cose non sono mai come te le aspetti."
Ha rimpianti? "Uno solo: non aver prestato abbastanza attenzione ai cartelli che indicano ’direzione vietata’."
Antonella Barina
carmillaonline.com
10 Dicembre 2005
Cargo di orchidee dell’autrice canadese Susan Musgrave è un libro forte che, come mi ha consigliato il suo bravo traduttore, va letto in modo emozionale. Perchè sfugge alle facili schematizzazioni e al moralismo. E’ un libro che non si digerisce facilmente perchè urta la sensibilità: l’autrice e la sua storia personale si pongono a conferma della veridicità del romanzo impedendoci di giudicarlo come semplice parto di una iperbolica fantasia (e d’altra parte Questa storia è vera recita la prima pagina)
E’ intollerabile che la protagonista si ritrovi senza la minima avvisaglia morale ad amare un uomo detenuto in un penitenziario di massima sicurezza senza percepirne in anticipo la malvagità ed assista come narcotizzata a rese dei conti carcerarie tra componente afro-americana (le cosiddette Posse) e narcos. L’inettitudine morale della protagonista è riscattata però da subito: la profondità umana della voce narrante infatti è proprio la sua, ma vent’anni dopo, dal braccio della morte. Che il suo destino sia quello di attendere lo scorrere del tempo nella Clinica della morte del Penitenziario femminile di Paradise Valley, è esplicitato dalla prima pagina: ogni mattina mi sveglio e affronto un giorno già vecchio, inquadrato, un materasso sottile, un cuscino segnato dal pianto.
La grandezza di Susan Musgrave si misura proprio qui, nel racconto grottesco della vita carceraria della voce narrante e delle sue due compagne, Frenchy e Rainy: il loro microcosmo affettivo appare un mondo di equilibrio e senso contro la follia surreale di regole e norme fatte per torturare il carcerato oppure per assecondare e bladire la mente malata della società americana.
Sia chiaro: non c’è sottovalutazione del destino proprio, ma c’è uno humor nero e caustico fatto per sopportare e sopravvivere fino all’appuntamento. Quelli che dipinge qui la Musgrave sono i ritratti insomma di una umanità dolente che chiederebbe un po’ di pietà, di una umanità che ha già molto sofferto (a me hanno ricordato quelle donne di Toni Morrison perdute in qualche tipo di equilibrio e compensazione, assorbite furiosamente dal bisogno di amore, aggrappate a sè e ai propri dolori come bambini da cullare).
Due terzi del racconto sono la storia della voce narrante e di come, accusata di infanticidio e di traffico di stupefacenti, sia finita nel braccio della morte. Le vicende si avvitano in un girone infernale colombiano, l’isola di Tranquilandia, dominio personale della Vedova Nera e del gruppo guerrigliero femminile detto Las Blancas. L’esperienza della protagonista si arricchisce qui di passaggi cruciali, la nascita del figlio, la propria cattività, la tossicodipendenza. Il suo sguardo talvolta inebetito, talaltra terrorizzato, si posa su una malsana umanità abbrutita dalla povertà, dai deliri di potere, dall’abuso in cui proprio le donne hanno la parte delle aguzzine e delle carnefici ed in cui più che il disordine civile può il sadismo come forma di empatia.
Simbolo di marciume e putrescenza umana, le orchidee invadono il paesaggio, lo avvolgono di seduzione e voluttà, inebrianti ma, appunto, menzognere.
Non a caso i nomi stavano lì a mo’ di monito: Consuelo, Angel Corazón, Tranquilandia. Smontata insomma la figura romantica del bandito, la Musgrave ci sfida a giudicare le debolezze dei suoi personaggi, delle nostre idiosincrasie attraverso le loro, della nostra capacità di sopravvivere e dei nostri poveri sotterfugi quotidiani attraverso il coraggio di questo inno al perdono.
Contro ogni giustizialismo.
Giulia Gadaleta
railibro.rai.it
Intervista di Claudia Bonadonna
Una trama intrecciata di autobiografia, quella di Cargo di orchidee.
- Quanto conta la sua vita al limite a fianco del bandito e scrittore Stephen Reid nella "pubblicità" della sua scrittura?
- Vorrei poter dire nulla, ma ovviamente non è così. La gente mi legge perché sono in qualche modo un personaggio. E’ una cosa di cui sono perfettamente consapevole e che accetto. In fin dei conti qualsiasi ragione spinga il pubblico verso il mio romanzo è buona. Certo, a volte mi intristisce il pensiero che venga posta più attenzione su di me che sulle mie pagine, perchè sulla scrittura ho fatto un grande investimento. Emotivo, esistenziale… professionale, perfino. Ma viviamo in un mondo che coltiva il culto della personalità e certe cose difficilmente possono essere cambiate. Mi consolo sapendo di aver lavorato duramente su questo così come su tutti gli altri miei libri. Di amare la scrittura comunque e al di sopra di ogni cosa... La sua protagonista, volutamente senza nome, è uno strano miscuglio di forza e tenerezza… In questo sono molto io. Sono sempre stata in lotta con la vita e ho sempre cercato di non esserne sopraffatta, di mantenere uno sguardo puro… tenero, direi, nei confronti delle cose. Ho vissuto situazioni impossibili, a volte pericolose, a volte difficili, a volte soltanto ridicole, spesso chiedendomi come avrei fatto a venirne fuori. Eppure eccomi qua, con la forza che mi dicono di avere ma anche con tutte le mie fragilità, i dubbi, le difficoltà… i motivi troppo labili per cui alzarmi dal letto certe mattine… Ecco, credo che proprio questo sia il fondo psicologico che muove i miei personaggi: una sorta di insopprimibile slancio vitale che li spinge ad andare sempre avanti, a sporcarsi le mani, ma anche a mantenere un fondo di morbida schiettezza. Sono troppo simili a me e alla mia vicenda? Ma un tocco di realismo, di umanità vera, è sempre necessario… è bello lasciare un po’ di vita nella letteratura… Buona parte della vicenda si svolge in carcere, nel braccio della morte, insieme alle amiche-nemiche Rainy e Frenchy… Ho fatto molte ricerche sulla vita nelle prigioni, ho intervistato detenuti e letto molti romanzi di argomento carcerario. Soprattutto mi interessava raccontare l’aspetto de-umanizzante dell’istituzione: i ritmi impossibili di vita e convivenza, la cancellazione di qualsiasi forma di dignità, la deprivazione emotiva e sensoriale… E dunque la disperata necessità dei detenuti di ricercare legami "vitali", legami che fuori non sarebbero neanche pensabili. Così, nel libro, queste tre donne si ritrovano a condividere un’intimità nuova e straniante… tre donne che in qualche modo - forzosamente, perversamente - si confortano e si completano… che diventano una la controparte dell’altra…
- Il romanzo è anche un’esplicita denuncia contro la pena di morte…
- Sì, lo è. E questo ha causato qualche problema in America, dove è stato bollato come strettamente antiamericano. La cosa in effetti non mi dispiace, amo le storie controverse e mi sarebbe dispiaciuto se di questo romanzo si fosse detto che era solo un noir o una commedia nera. Quello che tollero meno è la tendenza del pubblico e dei critici americani a scegliere un’etichetta che elimina tutte le altre e condanna un testo ad un’unica prospettiva - in questo caso appunto quella dell’antiamericanismo. In Australia, per esempio, non c’è stata questa percezione; né in Italia, dove il dettato letterario è stato considerato al pari dell’impegno di denuncia…
- Ha detto di aver fatto un investimento "professionale" sulla scrittura. Quali percorsi di formazione, allora? quali fonti?
- Citerò tre autori e tre libri che ho molto amato: il Coetzee di Aspettando i barbari, Amatissima di Toni Morrison e la raccolta Being Dead del poeta inglese Jim Crace. Di loro adoro l’uso perfetto della lingua, la scrittura letteraria ma toccante… Intendiamoci, non sono una purista della forma. Mi piacciono le trame ben svolte e i personaggi avvincenti - anche in senso negativo. Spesso sono proprio queste le cose che ti legano alla pagina, che ti stimolano ad andare avanti. Ad un romanzo però chiedo qualcosa di più di un colpo di scena ogni tanto. Chiedo lo stesso che alla poesia: una scrittura imprevedibile, che insegni a vedere il mondo in un altro modo…
- Prosa e poesia, dunque. Territori che lei ha frequentato in egual misura. Con quali differenze? Lascio che la poesia racconti la mia parte più oscura e liquida, mentre nei romanzi abita la me stessa più estroversa e ironica, o anche semplicemente quella più arrabbiata e impegnata verso l’esterno. Verso le riflessioni sociali, per esempio, che mai mi permetterei di trattare in una poesia. E poi esiste la me stessa scrittrice di articoli e recensioni. Quella che si permette di ridere dei canoni e dei colleghi e che combatte con le date di consegna!
Gioia
18 Gennaio 2005
Susan Musgrave ha 54 anni e non fa niente per nasconderlo. Il viso segnato rivela una vita all’ultimo respiro, vissuta all’insegna di un’attrazione fatale per gli avventurieri e la trasgressione. Il secondo marito era un trafficante internazionale di stupefacenti (l’ha conosciuto perché era difeso dal primo marito, avvocato penalista), il terzo un rapinatore di banche. Poetessa e scrittrice di culto nel suo paese, il Canada, è stata protagonista anche di un documentario, La poetessa e il bandito. Nei suoi romanzi si racconta con una scanzonata dose di humour nero. Vale la pena leggerli visto che adesso, grazie a un piccolo editore, Meridianozero, sono pubblicati in Italia.
Il primo, Cargo di orchidee, è ambientato in un carcere femminile e ricostruisce le vite di tre detenute.
- Almeno una volta nella vita tutte le donne sognano la fuga d’amore con un avventuriero...
- Non ho mai pensato di realizzare una fantasia: sono scappata con l’uomo che amavo. E’ successo. L’ho conosciuto perché mio marito, avvocato penalista, era il suo difensore. E’ stato amore a prima vista e, lo confesso, sentivo che in quella fuga c’era la possibilità di un’avventura e questo era molto, molto attraente. - Cos’è l’avventura?
- Fuga dalla noia, possibilità di vivere una nuova vita.
- Le convenzioni sociali non l’hanno mai preoccupata?
- Sono un’amica leale e generosa. Non rappresento una minaccia politica, non sono competitiva, vivo a nord di Vancouver, in un villaggio di poche centinaia di anime. Poi il Canada ti protegge. Negli Usa forse avrei avuto vita difficile.
- Lei ha due figlie, Charlotte, di 24 anni, e Sophie, di 16. Come le ha tutelate?
- Sono stata prima di tutto una madre e le ho incoraggiate a sviluppare la loro personalità. I compagni le guardano con ammirazione perché il mio terzo marito, il rapinatore di banche, è in Canada un personaggio di culto, alla Bonnie and Clyde.
- Che differenza vede fra il bene e il male?
- Il male è fare qualcosa con la consapevolezza che altri soffriranno. In inglese male si dice "evil" che, letto al contrario, diventa "live", vita. Il male può diventare anche qualcosa di positivo.
Erica Arosio
Grazia
10 Luglio 2005
La fonte del dolore è inesauribile, "e il cuore deve fare spazio per ospitarne ancora".
Così si chiude Cargo di orchidee, romanzo quasi autobiografico di Susan Musgrave, splendidamente tradotto da Giuseppe Iacobaci per Meridiano Zero. Musgrave – nata nel 1951 in California, ma cresciuta a Vancouver – è definita l’enfant terrible della letteratura canadese. Lei dice che il suo elemento "è il vento: più soffia e meglio sto" (come si legge in una recente intervista). I benpensanti le rimproverano una certa propensione per i tipi criminali – il suo attuale consorte sta scontando una lunga pena per una rapina a una banca. I media parlano sempre più della "poetessa e il bandito", forse non sapendo di ricorrere a uno schema antichissimo, un vero e proprio archetipo che attraversa le più diverse culture. A ogni angolo del mondo: dal sertao del Brasile, che neglia anni trenta vide l’amore di Maria Bonita per il re dei fuorilegge Lampiao, alle foreste dell’India, teatro negli anni Settanta delle imprese di Phoolan Devi, la donna che ha combattuto – fucile alla mano – contro il sistema delle caste. Sarebbe facile ridurre tutto a un romanticismo di maniera affascinato dalla delinquenza.
Le pagine di Susan Musgrave mostrano invece il volto crudele delle stesse istituzioni deputate a reprimere il crimine. Così parla al protagonista del libro dal braccio della morte: "Dopo averla osservata da tutti i punti di vista, sono giunta alla conclusione che la pena capitale è un sintomo della confusione che regna nella nosrta società. Non è più efficace nello scoraggiare il crimine di quanto nono lo fossero i sacrifici atzechi nell’assicurare che il sole continuasse a brillare nel cielo".
Giulio Giorello