Autore: Fabrizio Poggi
VOLUME ILLUSTRATO
La leggenda narra che Robert Johnson strinse il patto con il diavolo a un crocicchio, cedendo la sua anima in cambio del talento per suonare la chitarra come nessuno aveva mai fatto prima. Il blues nacque così: imbevuto fin dall’inizio di magia arcana e spettrale. Proprio per questo ancora oggi le sue formule, i suoi riti e linguaggi rimangono sconosciuti e occulti.
Angeli perduti del Mississippi decodifica i meccanismi che costruiscono le atmosfere rapinose e corsare che ammantano la musica del diavolo, e lo fa attraverso una miscellanea di micro-racconti, di frammenti narrativi incastrati come tasselli di un medesimo mosaico. Un affresco tanto affascinante da assumere i contorni di un viaggio letterario e culturale che odora di zolfo e distillerie, chitarre e demoni, e che porta progressivamente a trasfigurare l’opera in una ballata sulla musica nera.
Un suggestivo vagabondare, insomma, che disegna una geografia storico-sociale, oltre che musicale, stupefacente e ricca di spunti. Un libro che, in un’efficace galleria di personaggi, non manca di tratteggiare le vite dei principali alfieri del blues – da B.B. King a Bessie Smith, da Buddy Guy a Elmore James – ma che racconta anche il double talk, la lingua “nascosta” con cui i neri parlavano per non farsi comprendere dai bianchi, e l’hoodoo, quell’insieme di credenze popolari e pratiche magiche o propiziatorie legato al mondo africano.
Angeli perduti del Mississippi mescola allora critica musicale e ricerca antropologica, narrativa d’avventura e di viaggio in una combinazione di linguaggi e ritmi davvero avvincente e imperdibile.
“Chi non ama il blues ha un buco nell’anima.”
- sul muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi -
Nuova edizione aggiornata, illustrata, rivista
e corretta di un grande classico della saggistica blues!
Oltre 100 illustrazioni delle
più importanti band e dei maggiori artisti
Una nuova introduzione e nuovi
capitoli arricchiscono il volume
Leggevo saggi, compravo dischi, andavo ad ascoltare i musicisti francesi e americani di passaggio.
Ebbi anche la fortuna di scoprire all’ultimo minuto un concerto del grande cantante
e armonicista Fabrizio Poggi che si esibiva con il gruppo dei Chicken Mambo.
La sua versione di I am on the road again mi riscaldò il cuore.
Ma non era sempre così. A volte tornavo a casa turbato.
Il blues può essere spietato, senza che te ne accorgi ti scava dentro,
ti sbatte in faccia ricordi o ti fa precipitare nella nostalgia.
– Massimo Carlotto, La banda degli amanti
Autore
Fabrizio Poggi nasce nel 1958 e si avvicina giovanissimo al mondo della musica. A fine anni Ottanta l’incontro con l’armonica a bocca, di cui diventa uno dei più noti solisti italiani. Con la sua band Chicken Mambo e altre formazioni incide diciannove album, di cui molti prodotti negli Stati Uniti, paese che ben conosce grazie ai numerosi tour e alle tante collaborazioni con artisti di fama mondiale. La Hohner (la più celebre azienda di armoniche a bocca) lo ha premiato con un importante Oscar alla carriera. è stato il primo europeo ad essere candidato ai Blues Music Awards (gli Oscar del Blues) e ai Jimi Awards come miglior armonicista. è il bluesman italiano più conosciuto oltreoceano.
Alias
10 Aprile 2011
Ad oggi, ci ricorda Vincenzo Martorella, nel mondo sono stati pubblicati qualcosa come trentamila studi sul blues, tra saggi, monografie, articoli importanti. La generazione di studiosi che ha fatto seguito a Lomax, e alle ricerche pionieristiche sul blues ha avuto (e ha) meriti indiscutibili: riportare, per dirla con Dylan ’tutto a casa’, ossia cercare di comprendere come il blues sia uno dei rami importanti della famiglia di note afroamericane.
Origini da cercare, alla lontana, in forme espressive africane, coscienza più o meno svelata di essere anche ’altro’, cioè il frutto di una elaborazione e di un vissuto di persone che erano, assieme, africane nelle origini e americane nel presente. Con la famiglia afroamericana il blues condivide decisivi tratti estetici, un percorso diacronico tutt’altro che lineare, e anche molta mitologia da sfatare.
È ben noto che, in Italia e non solo, gli appassionati di blues spesso hanno i tratti forti della setta estetica: con tutte le pericolose tendenze a identificare una ’purezza’ di forme (e firme, per così dire) che garantirebbe autenticità e tradizione ’vera’. Concetti, come è ben noto, pericolosi e spesso usati come armi contundenti.
Prova a far chiarezza su tutte queste tematiche, ora, il bello studio di Vincenzo Martorella, Il blues (nella serie Mappe della Piccola Biblioteca Einaudi), che offre spesso il destro ad argomentazioni assai innovative, e figlie della ricerca musicologica e antropologica più recente, andando a colmare un vuoto evidente di trattatistica generale in italiano.
Sono circa trecento agili pagine, dense e ben scritte, organizzate dall’autore su tre grandi campiture. La prima dedicata all’annoso problema dell’origine del blues, termine unificante, dai primi decenni del secolo scorso, per una gran varietà di forme germinate in diverse aree degli Stati Uniti.
La seconda parte tratta invece di figure, forme e modelli: con grande evidenza riservata anche all’industria discografica, a collezionisti e studiosi, al mondo ’dietro le quinte’ che ha costruito la mitografia e la realtà commerciale del blues.
Nella terza sezione, infine, si parla delle declinazioni autoriali del blues: storie di vita e di estetiche diverse che non cercano una supposta ’purezza’. UN LIBRO IMPORTANTE, insomma, da leggersi in pendant con un altro testo significativo sul blues, Angeli perduti del Mississippi – Storie e leggende del blues (Meridiano zero Edizioni).
Ne è autore Fabrizio Poggi, un nome ben noto anche in ambito musicale: Poggi è un eccellente armonicista, all’opera sia in campo blues, sia nella ricerca sulle nostre musiche popolari e di tradizione orale. La particolarità del testo è di essere organizzato come un vero e proprio prontuario alfabetico del blues, dalla a di ’Alabama’ alla zeta di ’Zydeco’, il blues degli afroamericani creoli della Louisiana.
Nel mezzo ci trovate di tutto: biografie condensate dei grandi protagonisti, spiegazioni di come il termine ’banjo’ sia in realtà il risultato di un lungo slittamento fonico di una parola africana, il rapporto di Bob Dylan con il blues, le espressioni intraducibili, a prima vista, che in realtà nascondono prodigi di ’double talking’, di doppio o triplo significato.
Da tenere sotto mano.
Guido Festinese
blackandblueandblog.blogspot.com
7 Ottobre 2011
Poggi racconta gli uomini del blues in un libro Pubblichiamo la bella intervista che Roberto G. Sacchi, direttore di Folkbulletin, ha fatto all’armonicista e scrittore Fabrizio Poggi sulla sua pubblicazione: Angeli Perduti del Mississippi (edizioni Meridiano Zero).
Il libro è molto interessante, appassionante e piacevole da leggere ed è inoltre impreziosito dalla copertina disegnata dal grande Robert Crumb (quello di Fritz il Gatto e di altri celebri fumetti). Speriamo che questa intervista vi possa convincere ad acquistarlo!
Cominciamo il viaggio dentro "Angeli perduti del Mississippi". Perché questo libro? Cosa vuole significare per te e per chi lo leggerà? Immaginate che il blues, il canto afroamericano per eccellenza, non sia solo una musica bellissima, come peraltro è, ma anche un luogo dell’anima dove si possono incontrare personaggi misteriosi e leggendari, un luogo quasi magico in cui dietro al nome di ogni strada si nasconde il mistero di una storia. Una storia a volte cupa a volte divertente, ma sempre affascinante. Una storia che a volte è racchiusa in una parola o in un modo dire arcaico, evocativo e seducente. Questo è un altro di quei libri che mi sarebbe piaciuto leggere quando trent’anni fa mi sono avvicinato al blues.
Un libro fatto di parole semplici, semplici come la musica che descrive, ma anche un libro pieno di passione, quella che c’è dentro il mio cuore quando suono il blues. Questo libro è una guida, o come dice il grande e indimenticabile Ernesto De Pascale nella sua introduzione, un navigatore satellitare dei sentimenti per visitare con gli occhi del cuore quel luogo dell’anima che si chiama blues. Un luogo in cui incontrerete chitarre e armoniche a bocca, treni da prendere al volo, musicisti che hanno venduto l’anima al diavolo e distillatori di whisky di contrabbando che cantano come angeli, angeli perduti del Mississippi alla ricerca della propria anima blues. Ma questo libro potrebbe essere anche un romanzo giallo, un noir, in cui però i protagonisti non sono né buoni né cattivi, perché nel blues non ci sono buoni e non ci sono cattivi. Ci sono solo storie da raccontare…
E vediamole un po’ alcune di queste storie… Sono storie che parlano di whiskey di contrabbando e bevande micidiali, che parlano di dadi e carte truccate, di armoniche a bocca, pistole e coltelli, di chitarre suonate facendo scorrere colli di bottiglia spezzati sul loro manico; di famigerate prigioni del Mississippi in cui c’era sempre un secondino che prima o poi avrebbe scritto con la frusta il suo nome sulla schiena dei prigionieri. Storie che parlano di misteriose fotografie di bluesmen che appaiono e scompaiono e di un leggendario musicista che ha addirittura tre luoghi in cui è sepolto. E poi ancora storie che parlano di sortilegi vudù e di talismani prodigiosi che si chiamano mojos. Storie che spesso mi hanno raccontato i bluesman autentici che ancora oggi abitano il Mississippi.
Argomenti affascinati e coinvolgenti che mi hanno conquistato tanti anni fa e che spero conquistino anche voi. Il tuo libro è ordinato come un dizionario, alfabeticamente. Perché questa scelta? Perché nel blues dietro ogni parola c’è una storia. Perché il lettore ha così due diversi modi di utilizzo: può leggerlo tutto d’un fiato come se fosse un romanzo oppure può consultarlo come se fosse un vocabolario. Ho cercato di spiegare quel linguaggio misterioso che gli afroamericani avevano inventato per non farsi capire dai padroni bianchi.
Non va dimenticato che negli anni in cui il blues è stato inventato nelle piantagioni di cotone del sud degli States ai neri era impedito di comunicare tra loro. Il blues era spesso il veicolo che i neri usavano per comunicare tra loro sentimenti, paure, speranze, delusioni. Ma non mi sono fermato lì. Perché in questo libro racconto anche che il blues ha una storia che ci porta in Africa perché le sue radici sono profondamente conficcate in quel continente meraviglioso e tormentato. Una terra tanto bella da mozzare il fiato.
Eppure, da sempre, una terra ferita e martoriata. Una terra da cui sono partiti in catene i padri di quegli uomini che da un dolore infinito hanno saputo tirare fuori dalle acque fangose del Mississippi il blues, la madre di tutte le musiche. Uomini che hanno inventato una musica che è una medicina. Una medicina capace di guarire tutte le tristezze del mondo. E per farlo, quegli uomini saggi e coraggiosi, hanno trasformato i loro tamburi in chitarre e i loro flauti di legno in armoniche a bocca. Molto bella la copertina del libro. Ce ne parli?
- Il musicista raffigurato in copertina è l’immortale Mississippi John Hurt, un musicista davvero unico e mai troppo osannato. E chi più di Mississippi John Hurt è un angelo perduto del Mississippi? Steve LaVere, uno dei più grandi esperti di blues, mi ha raccontato che dietro ai modi dolci e al sorriso disarmante del buon vecchio Mississippi John Hurt si celava un provetto distillatore di moonshine ovvero il whiskey di contrabbando. Uno dei migliori del Mississippi. Quando Steve LaVere ed altri appassionati lo riscoprirono durante il blues revival degli anni Sessanta ad Avalon, sempre in Mississippi, quasi gli fecero prendere un colpo. John Hurt pensava che LaVere e i suoi compagni, giovani bianchi ben vestiti, fossero agenti della finanza arrivati a mettere fine alla sua ormai lunga carriera di abile contrabbandiere di whiskey. Quando vide arrivare questi signori giovani bianchi e ben vestiti pensò: "Ahi, questa volta mi hanno beccato davvero". Quando uno di loro gli disse che lo avrebbero portato a Washington, lui andò in casa baciò moglie e figli e cominciò a preparare la valigia. Solo dopo un bel po’ chiarirono l’equivoco, in effetti loro lo volevano portare a Washington ma non per metterlo in galera per contrabbando di whiskey ma bensì per fargli incidere dei dischi. E non è quindi un caso che sia lui il musicista che compare sulla copertina del libro disegnata da uno dei più grandi disegnatori di tutti i tempi, il leggendario Robert Crumb. Non è stato facile per il mio editore avere un suo disegno, perché Crumb non è una persona facile e soprattutto non è uno che associa i propri disegni a qualsiasi cosa gli venga proposta. Ha voluto che l’editore gli traducesse almeno una parte del libro in inglese e solo dopo averla letta ha detto: "Ok mi piace potete usare il mio disegno". Per me avere un suo disegno in copertina è un altro sogno diventato realtà. Sulla quarta di copertina c’è una frase "Chi non ama il blues ha un buco nell’anima" (inciso sul muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi). E’ vero? Eh, si. Un po’ è vero.
Quella è una scritta che io ho visto incisa sul muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi. Quando chiesi al proprietario del negozio chi l’aveva scritta lui mi disse: "Non lo so è sempre stata lì". E poi aggiunse: "Quella è una frase che tutti i bluesman dicevano". E un’ altra cosa dicevano o meglio insegnavano un tempo i bluesmen più navigati a quelli meno esperti, una cosa che vale ancora oggi e cioè che nel blues, come e più che in altre musiche, i silenzi e le pause sono importanti almeno quanto la musica. I musicisti dicevano spesso che "less is more – meno è di più" ovvero che non era importante il numero o la velocità delle note suonate ma la qualità di ogni singola nota. Bisognava scegliere in mezzo a tante la nota giusta, la nota che emozionava, che colpiva al cuore. E solo dopo anni un musicista di blues riusciva a capire qual’era la nota giusta da suonare, ma quando si arrivava lì voleva dire che si era davvero pronti, pronti per suonare il blues! Chi non ama il blues ha un buco nell’anima.
E se arriverete all’ultima pagina del libro scoprirete perché, darete ragione a chi a ha scritto quella frase sul muro del negozio. E a proposito di anima, sia il tuo disco precedente, sia quello appena uscito hanno un denominatore comune: la spiritualità. Una scelta che è un’altra storia da raccontare, vero? Ai padroni delle piantagioni non piaceva che gli schiavi cantassero il blues. Li vedevano ballare e cantare il blues, e in quei momenti i neri sembravano davvero liberi. Troppo liberi. Son House un famosissimo bluesman raccontava: «Ci dicevano se suonate il blues andrete dritti all’inferno. E noi ci credevamo. Però il blues ci piaceva troppo. Allora, abbiamo preso dei brani tratti dalla Bibbia e abbiamo cominciato a cantarli come se fossero dei blues…».
Così, in questo modo nacquero gli spirituals. E questo che vi suono con una vecchia armonica per salutarvi è uno spiritual antichissimo e insegna che cantando e battendo le mani, il Paradiso, ancora oggi, sembra un po’ più vicino… Però è vero, il fatto che sia ordinato alfabeticamente non impedisce di leggerlo come un romanzo, pagina dopo pagina? Guarda, amici miei hanno provato e garantiscono che è vero. Uno, in particolare, mi ha detto che nella durata di un viaggio da Milano a Venezia se l’è divorato tutto d’un fiato da Milano a Venezia, dalla lettera A fino alla T. Credo che questa particolarità risieda soprattutto nella grande spiritualità che circonda il blues, quella grande anima che respira collettivamente e ha una grande forza unitaria…
Tutte le storie contenute nel libro sono storie a sé ma fanno parte di un disegno comune. Dai, allora facciamo un gioco. Io dico una lettera dell’alfabeto e tu mi dici cosa ti fa venire in mente…
- Se dico "C"? Crossroad Blues, senza dubbio… Qualche tempo fa ho fatto uno dei miei tanti pellegrinaggi in Mississippi. Ho il privilegio di suonare nei locali dove il blues è nato. Per chi mi segue già da un po’ sa che durante tutti questi anni ho avuto delle esperienze bellissime e che ho avuto il privilegio di suonare con molti dei miei eroi musicali. Sia dal vivo che sui dischi. Ma l’emozione più grande, quella che mi porterò per sempre appresso, l’ho avuta un pomeriggio a Greenwood un paesino sperduto del Mississippi. Di solito io e il mio socio durante quel tour suonavamo soprattutto alla sera, ma lì a Greenwood suonavamo di pomeriggio. Eravamo a suonare in un locale in cui c’era gente di ogni età: giovani, famiglie, anziani, bambini. Tutti neri. Tranne noi. Durante una pausa tra il primo e il secondo tempo del concerto mi si avvicina una signora afroamericana di una certa età. Avrà avuto 78, 80 anni; più o meno l’età di mia madre. Mi prende per un braccio, lo stringe leggermente e poi mi dice: Hey man, you’ve touched my heart – mi hai toccato il cuore…
Ebbene quella signora che sicuramente non sapeva che fossi italiano e che forse non sapeva nemmeno dove fosse l’Italia, perché forse non era mai uscita non solo dal Mississippi, ma forse nemmeno dalla sua contea, mi aveva dato, senza saperlo, la più grossa soddisfazione della mia vita. Se ci dovesse essere un università del blues ebbene quella signora quel giorno mi diede la laurea. Ma soprattutto mi fece capire che quando suonavo il blues ero uno di loro. Avevo finalmente imparato la lingua del blues. E che tutti i sacrifici che ho fatto in questi anni per portare la mia musica un po’ ovunque erano serviti a qualcosa. Erano serviti a toccare il cuore di una signora dall’altra parte dell’oceano. Una signora che probabilmente nella sua vita aveva ascoltato solo blues… E tanto mi basta.
Ma tornando alla lettera C e a Crossroad Blues ecco, viaggiando di notte su queste stradine di terra battuta circondate solo da campi di cotone e illuminate da una pallida luna, mi sono reso conto di cosa poteva voler dire essere un povero ragazzo di colore nei primi decenni del secolo scorso quando per i neri in tutto il Sud degli States c’era il coprifuoco. Quando faceva buio, trovarsi come cantava Robert Johnson nella sua famosa canzone, ad un incrocio sperduto nelle campagne del Mississippi era davvero pericoloso. Quelli erano anni in cui per impiccare o imprigionare un nero ci voleva veramente poco, nessuno avrebbe protestato.
E capitava sovente che i neri fossero circondati da gruppi di bianchi ubriachi che volevano divertirsi con loro magari linciandoli o impiccandoli ad un albero, facendoli diventare quegli "strani frutti" di cui canterà qualche anno dopo la grande Billie Holiday. Ebbene spesso i neri, con la paura che li paralizzava, tiravano fuori dalla tasca della loro tuta da lavoro l’armonica e cominciavano a suonare e a ballare divertendo i bianchi ai quali spesso passava la voglia di "divertirsi con loro". E allora il suono dell’armonica diventava davvero un grido disperato nella notte. Un grido per salvarsi la vita, al crocicchio, al cross road. Un lungo capitolo del tuo libro è dedicato al blues inglese.
Per molti, questo potrebbe essere sorprendente. Ci spieghi perché invece non lo è, o perlomeno non lo è del tutto? Per parlare di quanto il blues sia stato fondamentale nella nascita del rock potremmo prendere ad esempio due ragazzi londinesi di nome Mick Jagger e Keith Richards, che suonavano in un gruppo che aveva preso il nome da una canzone di un grande bluesman, Muddy Waters: i Rolling Stones. Mick Jagger e Keith Richards frequentavano lo stesso liceo e ci andavano usando lo stesso treno. I due diventarono grandi amici quando Richards vide Jagger girare per i vagoni con un LP del leggendario armonicista Little Walter sotto il braccio. I due diventarono presto inseparabili, trascorrendo diverso tempo insieme e strimpellando l’uno la chitarra e l’altro l’armonica.
Quando nel 1964 i Rolling Stones già famosissimi visitarono per la prima volta gli Stati Uniti, la prima cosa che vollero fare fu registrare qualcosa nei mitici studi dell’altrettanto leggendaria Chess di Chicago, la compagnia discografica dalla quale provenivano tutti i dischi dei loro idoli: Chuck Berry, Muddy Waters, Junior Wells, Little Walter, Howlin’ Wolf, Sonny Boy Williamson II eccetera. Racconta un aneddoto, tra realtà e leggenda, che quando la band arrivò negli studi della Chess, vide un tale che stava dipingendo le pareti dei locali. I quattro inglesi non poterono non notare quanto questo imbianchino assomigliasse proprio al loro idolo Muddy Waters; chiesero allora alla persona che li accompagnava chi fosse quel tipo. Alla risposta che "l’imbianchino" era proprio lui, il grande bluesman Muddy Waters, i Rolling Stones ebbero uno shock fortissimo.
Quando si ripresero, fu loro spiegato che Muddy Waters aveva avuto delle anticipazioni di denaro per dischi che non erano andati commercialmente bene e quindi si era accordato con la casa discografica per restituire la somma che gli era stata data in più facendo dei lavoretti. Tutto questo aprì gli occhi ai giovani Stones su quella che era la situazione all’interno del mondo del blues negli Stati Uniti…
Gruppi britannici come loro, gli Animals di Eric Burdon, iThem di Van Morrison, gli Yardbirds, i Fleetwood Mac, i Bluesbreakersdi John Mayall con Clapton alla chitarra, faranno presto riscoprire all’America bianca e benpensante il prezioso tesoro musicale che da sempre si suonava nei suoi cortili o agli angoli delle sue strade: il blues. E oggi noi sappiamo che quella è stata sicuramente prima la scintilla e poi la fiamma senza la quale il rock non solo non sarebbe esploso, ma forse nemmeno nato. Ma questa è un’altra storia…
E se dico H?
- H come hobo. Un termine che non appartiene solo al blues ma a tutto l’immaginario collettivo folk statunitense. Ed è una di quelle parole che appartengono al linguaggio dei poveri d’America, al di là del colore della pelle. Il termine si può tradurre in italiano come "girovago, vagabondo, nomade, randagio, ambulante e…". I primi hobos furono i braccianti agricoli che già dalla metà dell’Ottocento si spostavano da un posto all’altro alla ricerca di lavoro. Hobo deriva dalla contrazione di "hoe-boys". E siccome hoe in italiano significa zappa, ecco che gli hobos diventano i "ragazzi della zappa". Così come i loro colleghi cowboys erano i "ragazzi delle mucche". Gli hobos si spostavano non solo per lavorare nei campi ma anche per trovare lavoro nei cantieri ferroviari, nelle miniere, nelle fabbriche del nord. Molti di loro erano boscaioli mentre altri trovavano impiego nelle compagnie addette alla costruzione degli argini dei fiumi. Dalla metà dell’ottocento fino al 1935 circa, passando quindi per il tragico periodo della Grande Depressione, più di 15 milioni di hobos si spostarono da un capo all’altro dell’America in cerca di lavoro. Il loro mezzo di trasporto preferito erano i treni merci sui quali, naturalmente, viaggiavano clandestinamente, spesso braccati dai ferrovieri stessi o dai famigerati "vigilantes", un mezzo sicuramente veloce ma molto pericoloso, specialmente se lo si prende mentre la locomotiva sta correndo. E, purtroppo, molti di loro persero un braccio o una gamba o a volte la vita stessa proprio a causa di un incidente ferroviario. Lo spirito degli hobos era uno spirito libero. Oggi qua domani là senza briglie e senza legami. Non sempre erano ben visti per il loro stile di vita stravagante, zingaro senza legami né padroni. Molti fra loro erano musicisti, spesso bluesmen, che correvano da un capo all’altro dell’America portando le loro canzoni nei campi e nelle fabbriche.
I due musicisti hobos più famosi sono sicuramente Woody Guthrie e Robert Johnson.
Roberto G. Sacchi
Buscadero
Aprile 2010
Chissà quante volte abbiamo ascoltato Robert Johnson o Muddy Waters, o dischi registrati in un juke joint, o ripetuto a denti stretti frasi tipo "get me a mojo hand".
Abbiamo ascoltato J.B. Lenoir e assaporato del funk, oppure semplicemente fruito del blues in tutte le sue varianti, down home, delta, piedmont; quante volte avremo chiacchierato con Mr. Bojangles, o assaporato le canzoni di Bob Dylan, considerando distrattamente che le dodici battute fungono da base portante del suo patrimonio artistico; e quante volte ci sarà capitato di disquisire sulle radici africane dell’intera musica americana degli ultimi duecento anni. Termini, appellativi, luoghi, generi musicali, locuzioni che creano con il tempo un identificativo indelebile e che si riflettono ancor più indelebilmente sull’immaginario in senso più ampio.
L’immaginario ne smorza un po’ l’effetto a volte, ricambiandoci però con una praticità d’uso; e se qualche volta citiamo termini, locuzioni, modi di dire con un po’ di approssimazione, ciò fa parte delle regole del gioco. In fondo la musica viene suddivisa in generi per nostro comodo e questo di per se è già un significato, al di la del significato vero e proprio.
Come dire che c’è chi si prende l’illustre briga di approfondire e chi poi fruisce (magari il fruitore renderà il favore in altri campi). Chi approfondisce si appresta a un lavoro insostituibile, affascinante e a volte ingrato; il cosiddetto "fissato" ha il gusto e l’insana tentazione di trasmettere le sue conoscenze accumulate in decenni di frequentazioni, ricerche, viaggi, studi; ciò che ha acquisito con tanta passione ma anche con fatica, lo mette istantaneamente al servizio del fruitore, che nello spazio di una lettura arricchisce se stesso. Nello specifico, l’uomo con l’insana tentazione è Fabrizio Poggi, ministro dell’armonica e frequentatore del panorama afro americano da decenni, autore di un altro splendido saggio, II violino dei poveri, dedicato al piccolo strumento e ai suoi eroi (recuperare please qualora non lo aveste già fatto).
Me l’immagino stanco di sentire la gente che canta Hoochie Coochie Man "a pappone" (ovvero così come viene; tranquilli, è nel pieno diritto del fruitore); e allora beccatevi un incredibile dizionario su tutto ciò che riguarda da vicino il blues, i suoi dintorni (eccellente il capitolo sul menzionato Dylan), le sue leggende, le radici, i suoi lati oscuri, i personaggi. Angeli perduti del Mississippi è un indispensabile vademecum per comprendere il significato di tutto quello (o di molto perlomeno) che ha animato e che anima l’universo musicale e culturale afro americano; che poi, in fondo, generi o etichettature a parte, tutto è riconducibile ad un unico cosmo; il blues e la musica sono un linguaggio universale, di cui Fabrizio riporta i codici più significativi.
L’autore restituisce con stile fluido e accattivante diverse biografie, Leadbelly, Robert Johnson (chiaramente uno dei basilari), Lightnin’ Hopkins, Howlin’ Wolf, Blind Lemon Jefferson, John Lee Hooker, fotografa gli stili regionali e soprattutto approfondisce le radici africane di tanti termini comunemente usati; chiarisce la differenza tra "hoodoo" e "voodoo", si immerge nel significato di parole come "shimmy", "hokum", "holler", "hambone", "jack ball", "jazz", indica i vari modi per chiamare l’armonica.
Personaggi, appellativi, oggetti di culto, diventano protagonisti della stessa rappresentazione storica. Insomma c’è di tutto in questo bel volume, più che approfondito (e non potevamo avere dubbi), ma anche bello, scorrevole e divertente da leggere, una volta tanto anche da chi non è esperto dell’argomento (e questo è un gran merito). Una ricerca, un viaggio fisico e spirituale verso territori cari e familiari all’autore, che mostra tutta la sua conoscenza e il rispetto per il fruitore di cui sopra; e Fabrizio è persona che umilmente mostra di esserlo lui stesso, fruitore.
Ed è grazie a opere come questa se miti, storie e leggende sopravvivono, se un patrimonio culturale viene preservato; se, in fondo, gli "angeli" non sono perduti per sempre.
Roberto Giuli
ilfattoquodidiano.it
Spirit & Freedom: non possono stare separati Spirit & Freedom non sono soltanto due parole distinte: unite insieme sono un luogo dell’anima. Infatti non c’è spiritualità senza libertà e viceversa nessuna libertà è tale senza spiritualità.
Quando, prima di ascoltare il disco, ho letto queste parole scritte in prima persona da Fabrizio Poggi nel libretto del suo nuovo e intenso lavoro, mi sono ritrovato davanti quei due punti, essenziali anche nella mia vita. Due punti che negli anni mi hanno arricchito come mai pensavo potesse accadere, ma che contemporaneamente mi hanno lasciato piccole e profonde ferite perché sono due valori non da tutti riconosciuti e metabolizzati. Spirit & Freedom mi ha toccato, facendomi provare emozione sincera il che, rapportato a una vecchia pellaccia come la mia, ormai assuefatta ai suoni del rock e del blues, è stata una sorpresa.
Fabrizio Poggi è un musicista, ma anche giornalista e scrittore: Il soffio dell’anima e il recente: Angeli perduti del Mississippi – storie e leggende del blues, che sta dedicando la sua vita alla musica in presa diretta, con un lavoro: sul campo di ricerca delle radici più autentiche e in studio di registrazione suonando con alcuni tra gli interpreti leggendari del blues. Fabrizio ha ripercorso le orme lasciate da Alan Lomax, il più importante etnomusicologo statunitense, l’uomo che negli anni ’40 con un registratore grosso come un frigorifero sul tetto della macchina, girò tutti gli Stati del Sud alla ricerca delle radici di quel suono che gli afroamericani avevano portato in America e che lo aveva affascinato, tanto da non riuscire più a liberarsene.
Tante sono le canzoni che hanno nella loro essenza lo Spirit & Freedom, Fabrizio Poggi ha deciso di interpretate quelle che maggiormente hanno lasciato un segno nella sua sensibilità e lo ha fatto andando più volte negli Stati Uniti a registrare con autentiche leggende viventi del rock e del blues. Non è stato facile, ma il lavoro serio, meticoloso e appassionato che ha svolto negli anni, con il suono compatto della sua band: i Chicken Mambo, lo hanno aiutato a costruirsi una credibilità in terra americana, come finora non è capitato a nessun altro musicista italiano. Si sono aperte porte meravigliose e artisti del calibro dei Blind Boys of Alabama, Garth Hudson membro fondatore di The Band, Eric Bibb, Charlie Musselwhite per citare solo i primi, hanno voluto lasciare la loro sentita testimonianza nel disco di Fabrizio.
Il tema della libertà attraverso uno dei canti spiritual più famosi, un inno alla libertà per gli afroamericani oppressi ed emarginati, ma tanti altri sono gli spiriti liberi che hanno aiutato Fabrizio a completare questo disco, da Billy Joe Shaver il poeta "on the road", definito anche il William Shakespeare della gente comune, a Mickey Raphael che ha inciso il suono della sua armonica in oltre 250 album, da Willie Nelson a Paul Simon, dagli U2 a Neil Young, passando anche per quelli di Johnny Cash, Allman Brothers, Stevie Wonder, Tom Petty e Bob Dylan, quel Bob Dylan che come scrive Fabrizio: con il suo senso di libertà, ha lasciato un segno indelebile, soprattutto quando tra mille difficoltà, ha scelto di non seguire l’onda, ma di suonare ciò che il suo spirito indomito gli suggeriva.
Da anni Fabrizio Poggi studia e poi racconta nelle sue canzoni storie affascinanti e dense di significati, andando a esplorare il blues, e la canzone popolare americana in profondità, non a caso una parte imperdibile sono i libretti dei suoi dischi e in un punto di Spirit & Freedom, prima di suonarla, racconta la storia di una delle canzoni americane più popolari, resa celebre negli anni dalle voci di Nina Simone, Nitty Gritty, Frank Sinatra, Arlo Guthrie, Bob Dylan, Jim Croce, John Denver. È una canzone scritta alla metà degli anni ’60 da Jerry Jeff Walker che nel weeek-end intorno al 4 luglio del 1965, una sera alzò parecchio il gomito e trascorse la notte nella prigione di New Orleans.
Lì incontrò un ballerino di tip tap che aveva l’aria di essere stato piuttosto bravo anni prima, ma che in quel momento era messo male in arnese. Il ballerino gli raccontò della sua vita, aveva girato in lungo e largo per tutti gli Stati del Sud, ballando nei locali più prestigiosi e quando viaggiava da una città all’altra, spesso saltando al volo sui carri merci dei treni, a tenergli compagnia era sempre il suo cane, che non lo lasciava mai, tanto da condividere con lui la buona e la cattiva sorte.
Quando il cane morì, il ballerino divenne via via più triste, cominciando a bere e a ballare sempre meno. Da quel giorno erano passati vent’anni, ma lui non si era più ripreso, ormai ballava agli angoli delle strade per qualche monetina e la sera nei locali scalcinati per un panino e una birra. Nella grande cella. Ad ascoltare il racconto, c’erano altri ospiti momentanei, visto che la polizia aveva fatto una retata per un omicidio, e ognuno, per non farsi riconoscere, aveva dato un nome falso o di fantasia, e il ballerino disse di chiamarsi Mr Bojangles.
A quel punto, visto che l’atmosfera nello stanzone si era fatta triste, uno dei presenti gli disse: "Mr. Bojangles, non essere triste, balla per noi".
Sergio Mancinelli
ilpopolodelblues
27 Maggio 2010
Fabrizio Poggi non è solo un ottimo musicista ma anche un attento ed appassionato ricercatore, da anni infatti oltre ad incidere dischi con le sue due band i Chicken Mambo e i Turututela, ha dedicato molto tempo allo studio del blues ed in particolare all’armonica, strumento a lui molto caro. Angeli perduti del Mississippi, non è il primo libro dedicato al blues che esce dalla penna di Poggi (di qualche tempo fa è lo splendido Il soffio dell’anima, dedicato agli armonicisti blues) ma a differenza dei precedenti, in questo nuovo lavoro il musicista vogherese va studiare da vicino le intricate e mitiche radici della musica del diavolo.
Dopo l’interessante presentazione di Ernesto De Pascale, uno dei principali animatori della scena blues in Italia, si viene letteralmente rapiti dallo stile accattivante di Poggi, che ci conduce attraverso storie affascinanti nelle quali incontriamo personaggi che hanno fatto la storia del blues da Robert Johnson a B.B. King da Elmore James a Buddy Guy, il tutto intercalando suggestioni leggendarie, ricerche antropologiche ed interessanti analisi musicali. Leggendo il libro, si ha la sensazione che Fabrizio Poggi voglia condividere con il lettore la sua passione per il blues, accompagnandolo attraverso un viaggio che conduce ben oltre l’immaginario tipico del blues da pub, ma che va dritto a coglierne la vera anima, quella celata ai più, e con grande abilità la priva di quel manto polveroso del tempo riportandola integra alla luce.
Di grande interesse ci sono sembrati il capitolo dedicato a Bob Dylan, che di tradizione blues ha permeato da sempre il suo songwriting, ma anche le varie biografie di Leadbelly, Robert Johnson Howlin’ Wolf e Blind Lemon Jefferson.
Insomma se cercate una mappa per orientarvi nell’intricato ginepraio della storia del blues, Angeli perduti del Mississippi, è il libro giusto in quanto ne compendia la storia e i personaggi principali ma allo stesso tempo si esalta nella ricerca musicale ed antropologica.
Salvatore Esposito
spaghettiblues.it
31 Marzo 2010
Ricordo molto bene la prima volta che incontrai Fabrizio Poggi.
Avvenne a Polverigi in occasione di un suo concerto. Notai subito che Fabrizio è un uomo fiero e silenzioso che osserva ogni cosa; che quando parla si concede delle piccole pause tra una frase e l’altra: una persona che ama riflettere prima di parlare. Premetto che, avendo letto anche il suo primo libro Il soffio dell’anima, certamente sarò in qualche modo condizionato. Noto subito che il format comunicativo è rimasto invariato, una sorta di dizionario, o diario magico, che permette di navigare come spiriti (o angeli…) tra i flutti del Blues.
Fabrizio riesce per la seconda volta a trasformare una lettura, apparentemente didattica, in una narrativa intrigante, semplice e diretta, dove le date si indicano per raccontare le storie (e non viceversa), tanto che, alla fine, della formula del "dizionario" rimane solo un pretesto artistico semplicemente per il gusto letterario di narrare a dosi controllate, o "pillole", le più belle storie del Blues. Il titolo sembra quello di un romanzo e sorprende il lettore che si ritrova immerso in una struttura discreta, da dizionario scritto, con uno stile denso di morbida eloquenza.
I contenuti sono i più vari, dal semplice significato di una parola o frase di una canzone, alle più complesse retrospettive dei grandi personaggi; dalla semplice descrizione di un borgo di Chicago, alla scoperta dei veri significati lirici del Blues; tutto ordinato dalla "A" alla "Z". La copertina (sarò inevitabilmente condizionato dal suo primo libro e… con tutto il gran rispetto per Crumb) questa volta mi delude un po’.
La scelta di un classico, il "non voler rischiare" nella ricerca di una grafica nuova, manifestano una strategia troppo contrastante con lo spirito di Poggi; per questo, seppur di fronte ad una delle più belle e suggestive opere di Mr. Robert Crumb, non la preferisco alla splendida ed inedita opera della Zelaschi. Alla fine del libro si ha come la sensazione che tra gli Angeli perduti del Mississippi ce ne sia qualcuno italiano, partito magari un secolo e mezzo fa e che, per un motivo o per l’altro, abita oggi gli stessi cieli.
Amedeo Zittano